Ruido #3 – Nayeli Cruz Bonilla e le strade di Città del Messico

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Dalla serie «Santa», Messico, 2015 (Nayeli Cruz Bonilla)

Nel terzo capitolo di Ruido intervistiamo Nayeli Cruz Bonilla, la giovane fotoreporter racconta Cittá del Messico attenta alle implicazioni etiche del suo lavoro


Di Stefano Morrone

Nayeli Cruz Bonilla, lavora come fotoreporter per il giornale El País e da più di dieci anni si muove quotidianamente nella labirintica Città del Messico. Nayeli è una delle rappresentanti di un nuovo ed interessante gruppo di fotografe messicane che si stanno imponendo nella scena del fotogiornalismo della capitale.

Cosa vuol dire essere una fotografa oggi a Città del Messico?

Negli ultimi anni il numero di fotografe messicane a Città del Messico é cresciuto molto, ricordo che quando ho iniziato a muovere i primi passi in questo contesto, più o meno intorno al 2010, eravamo ancora poche. Grazie al lavoro delle mie compagne mi sono avvicinata ad un approccio, ad una prospettiva, che potrebbe dirsi piú femminile, nel mondo del fotogiornalismo e della street photography in Messico. Con alcune di loro abbiamo creato un collettivo chiamato Violetas Taro, che è nato da un gruppo di whatsapp che avevamo tra colleghe, uno spazio intimo e sicuro dove scaricavamo le pressioni del lavoro e condividevamo le nostre preoccupazioni, gli episodi di violenza e machismo che soffrivamo nel quotidiano. C’è ancora molto machismo nell’ambiente professionale della fotografia, noi fotografe stiamo finalmente riuscendo a dimostrare che il nostro lavoro ha lo stesso valore  e soffriamo degli stessi rischi dei nostri compagni. Alcuni fotografi messicani vedono il mondo del fotogiornalismo como uno spazio prevalentemente maschile, un campo dove una donna non potrebbe raggiungere i loro stessi risultati, noi invece stiamo dimostrando esattamente il contrario, combattendo quotidianamente le nostre battaglie e prendendoci sempre più spazi.

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Dalla serie «Santa», Messico, 2020 (Nayeli Cruz Bonilla)

Raccontaci del tuo nuovo  progetto “Santa”?

E’ un progetto che nasce dalla necessità di capire come è stato costruito il ruolo delle donne messicane nella società e nella famiglia, dove nascono tutti i pregiudizi verso di noi e come lo spazio urbano aiuti a perpetuarli e sostenerli. In Messico la società porta a dividere le donne in due sole categorie: o sei una santa, e quindi sei madre, sei casta, devota alla famiglia e allo spazio domestico, come la Vergine di Guadalupe, o sei solo un corpo nudo esposto su un giornale scandalistico, un oggetto del desiderio sessuale maschile. Basta dare un’occhiata alla maggior parte dei quotidiani di cronaca nera dove si affiancano foto raccapriccianti e senza censura di corpi macellati, decapitati o scuoiati all’immagine di una donna nuda e in pose sensuali. Con questo progetto ho cercato quindi di osservare Città del Messico per capire come la nostra società maschilista crei queste categorie e costruisca i nostri ruoli.

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Dalla serie «Santa», Messico, 2013 (Nayeli Cruz Bonilla)

Spesso ti sei occupata di  storie di donne, una che mi ha molto incuriosito è quella di Tania. Potresti raccontarmi un po’ della sua vicenda?

Tania ha subito un tentativo di rapimento all’età di 17 anni, che la lasciò in coma dopo essere stata brutalmente picchiata. I medici le davano poche speranze di vita, ma la sua famiglia si rifiutò di staccare la spina, sono credenti cattolici, ed hanno riposto le loro speranze nella Vergine di Guadalupe, il culto più diffuso in Messico. Fortunatamente Tania si risvegliò dal coma e quindi i genitori fecero la promessa alla Vergine che per i seguenti tre anni avrebbero camminato da casa loro fino alla Basilica di Guadalupe in segno di gratitudine per questa nuova opportunità concessa alla loro figlia. È così che l’ho conosciuta, mentre andava in pellegrinaggio, vestita da vergine, insieme alla sua famiglia, dal comune di Chimalhuacán, una delle zone più violente dell’Estado de México, fino alla Basilica, percorrendo 25 chilometri a piedi per mantenere quella promessa.

Nonostante siano già passati tre anni, ogni 8 dicembre Tania continua a mantenere l’impegno con la Vergine. E’ fondamentale ricordare che i tassi di violenza contro le donne nell’Estado de México sono sempre più elevati: 2.417 donne sono state assassinate dal marzo 2011, quando il femminicidio è stato riconosciuto come crimine da parte del sistema giudiziario. Il Segretariato esecutivo del Sistema Nazionale di Pubblica Sicurezza riconosce 11 comuni dell’Estado de México nella lista dei 100 più pericolosi per le donne nel Paese, tra cui spiccano Ecatepec, Chimalhuacán e Nezahualcóyotl. La sua storia è indicativa di una parte molto ampia della popolazione messicana che soffre costantemente episodi di violenza  e che vede nella fede l’ultima risorse a cui fare  affidamento.

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Dalla serie «Santa», Messico, 2018 (Nayeli Cruz Bonilla)

In questi ultimi mesi ti sei occupata dell’emergenza sanitaria del Covid-19, cos’ha significato per te e come ti sei sentita nel dover esporti tutti i giorni e rischiare di contagiarti?

E’ stata un’esperienza molto dura, credo che per la prima volta nella vita mi sono domandata se avrei voluto continuare a lavorare come fotogiornalista. Le prime settimane, soprattutto, non riuscivo a non immaginarmi malata, vedevo immagini arrivare dall’Europa e stavo iniziando a capire come si diffonde il virus, ero terrorizzata per la mia famiglia e per i miei amici. Ho deciso quindi di prendermi del tempo per capire come affrontare il mio lavoro e chiedermi cosa volessi fotografare. Ho dovuto cambiare il mio modo di lavorare, iniziando per esempio a coprire le notizie accompagnata da altre colleghe in modo che ogni volta potessimo aiutarci a vicenda, capire cosa dire, cosa poter fotografare per essere rispettose delle situazioni, come comportarci nei momenti in cui ci si espone di più, come negli ospedali, nei forni crematori, nei cimiteri e nelle case delle persone malate.

Spesso durante il mio lavoro ho avuto a che fare con situazioni complicate, ma sapevo che tornando a casa o vedendomi con i miei cari sarei stata bene, invece il Covid ha annientato queste mie certezze. Ho imparato ad essere più empatica, ci sono molte foto che ho scattato che non renderò mai pubbliche, e ho avuto per molto tempo il timore che i protagonisti di quelle foto potessero diventare i miei cari. Nel contesto attuale noi fotografi sentiamo la necessità costante di dover condividere i nostri lavori sui social, perché è lì dove ora ci rendiamo più visibili e riusciamo ad ottenere nuovi incarichi, ma credo che con il Covid ci sia stata una “prostituzione” dell’immagine, un morbo, una saturazione che sta contribuendo a vivere con più disperazione la situazione attuale. 

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Covid-19 a Città del Messico, 2020 (Nayeli Cruz Bonilla)
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Covid-19 a Città del Messico, 2020 (Nayeli Cruz Bonilla)
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Dalla serie «Santa», Messico, 2012 (Nayeli Cruz Bonilla)
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Covid-19 in Messico, 2020 (Nayeli Cruz Bonilla)
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Dalla serie «Santa», Messico, 2013 (Nayeli Cruz Bonilla)
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Dalla serie «Santa», Messico, 2015 (Nayeli Cruz Bonilla)

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