[Da Rio Bravo Blog l’Espresso – F.L.] Il Brasile ha un nuovo presidente, appartenente anche lui all’ormai virale e virulenta corrente di non pensiero politico, quella che accomuna in un fascio pecioso l’isterica Casa Pound e lo xenofobico Salvini, i supremi pallidissimi Trump e Bannon o il pernicioso Orban e compagnia. Per capirci: ci sono i non luoghi e i luoghi comuni, i pensieri complessi e, infine, i non pensieri, tipici degli acefali e dei non-morti. Non ho mai sentito nominare (invano) così tanto Dio e Gesù Cristo, accostati sempre al “Bene Supremo del Brasile e della Santificata Nazione” (eccetera, eccetera…), come nei discorsi del prossimo presidente del Paese sudamericano, Jair Messia Bolsonaro (si chiama proprio Messia, non è un errore, e il secondo nome se l’è scelto lui, non a caso).
Profeta delle fake news, manipolatore universale del Whatsapp e parlamentare da oltre 27 anni, Bolsonaro s’è presentato come “anti-sistema” e ha vinto le elezioni del 28 ottobre al secondo turno col 55% dei voti contro Fernando Haddad, candidato erede dell’ex presidente Lula da Silva del Partito dei Lavoratori (PT). Bolsonaro ha registrato un’impennata nelle preferenze durante la campagna quando è stato accoltellato dopo un comizio e ha cominciato a inviare video live strappalacrime sui social dal letto d’ospedale: dopo la messa in croce è dunque risuscitato passando da Santo ad Apostolo e poi a Messia nel giro di pochi giorni.
Dal messianismo dell’estremista di destra brasiliano nasce il titolo divino di questo post, estemporaneamente indignato. La figura pubblica di J. Messia Bolsonaro, noto per le sue proposte e frasi polemiche di tipo razzista, sessista, violento, antidemocratico e militarista, è la parodia performativa del patriarca demiurgo e del Messia cristiano che fagocita evangelicalismo, cattolicesimo, pentecostalismo e dittatura sotto un’unica bandiera gialloverde (sì, proprio come il colore dei gialloverdi nostrani che già sono suoi fan e chiedono la testa di Battisti, tanto per cambiare). Distillando dai neuroni una qualche categoria da politologo sperimentato, direi che in questo caso possiamo tranquillamente, anzi inquietantemente, parlare di “fascismo neoliberale” dalle tendenze depressive.
Tagli alle pensioni, all’istruzione, alla spesa pubblica e ai diritti sociali e dei lavoratori, minaccia dell’Amazzonia e svendita delle risorse naturali, armamenti incalliti per tutti, allineamento agli interessi di Washington e delle multinazionali sono solo alcune delle perle programmatiche che Bolsonaro e il blocco conservatore, maggioritario anche in parlamento sebbene frammentato in numerosi partiti, hanno promesso di realizzare. Per lo meno la macelleria sociale rischia di ricompattare il fronte oppositore e va vista come un’opportunità per rivitalizzare le sinistre movimentiste e di partito, nella speranza che la giovane democrazia latinoamericana non collassi del tutto in una dittatura dall’apparenza democratica, come preconizzano alcuni osservatori preoccupati. Nel frattempo, come in Italia, i crimini d’odio si moltiplicano in una onda terrorista foraggiata dal clima politico e da leader insulsi.
Ma che c’entra con tutto ciò il catrame (vedi titolo)? Niente forse. In quinta liceo feci un corso di teatro e ogni studente rappresentò un monologo in uno spettacolo durante il festone di fine anno. A me toccò provare a interpretare un’opera mistica, satira ben farcita di parolacce e immagini lampanti: “Travolti da una macchia di catrame nell’azzurro mare di agosto” di Gino e Michele, tratta dal libro“Faceva un caldo torrenziale” del 1986. La loro satira funzionava pure, ma la mia performance teatrale un po’ meno. Ricordando quei bei tempi, riproduco il loro testo, estivo, da spiaggia e sporchevole, ma lo assimilo ora a una metafora del fascismo esistente, del nero catrame del salvinismo, del bolsonarismo e del trumpismo, che poi è la stessa broda, coccoina nera da scogliera… Eccolo, a guisa di conclusione:
Catrame bastardo. Coccoina nera da scogliera che ti attacchi allo Speedo bianco immacolato proprio in mezzo al sedere nel giorno in cui s’era dato il via alla caccia alle straniere. Quel che si dice propriamente una figura di merda.
Catrame fottuto. Che non vieni più via nemmeno in lavanderia. Catrame che ti smolli sotto il solleone e ti nascondi vigliacco sotto la ghiaia. Che ti attacchi al tallone. In silenzio, stronzo. Che ti fai portare a zonzo dentro le espadrillas pastello. Che lentamente passi la stoffa e la corda, e bel bello te ne vieni fuori in gelateria. Una macchia nera spropositata sopra il pollicione. Altro che taglio di limone.
Pavido, pusillanime. Abbi il coraggio delle tue azioni. Se ti sto per schiacciare grida. Sussurra, quantomeno. Dammi la possibilità di non prenderti in pieno. E non massacrarmi i miei calzoni di lino. Catrame bastardo che incolli la suola all’asfalto. Catrame beffardo che macchi le lenzuola. Che rendi zebrate le lenzuola immacolate.
Catrame infame. Che ti appiccichi alla Lacoste nelle notti in spiaggia fatte di avventure nascoste. Notti da film, a rotolarsi in riva al mare. Che quando torni incatramato tutti ti dicono: sei stato a scopare.
Catrame sulla chiglia del gommone che ti viene una insolazione per tirarlo via. Che per diluirlo butti via un serbatoio di benzina e la benzina sull’isola è finita. Così che hai la chiglia pulita e il gommone fermo in capitaneria
Catrame figlio di una petroliera. Catrame porcello, che una sera ti ho trovato in bella mostra dentro a un’aragosta. Ecco perché son cosi care. Il prezzo lo decide l’Opec.
Catrame disgraziato, impastato sui bianchi sassi delle nostre spiagge malate.
Catrame schifoso, rovina della nostra estate. Terrore degli asciugamani, dei piedi, delle mani. Terrore di ogni corpo galleggiante. Catrame subdolo e intrigante. Catrame bastardo. Potessi distruggerti con un solo sguardo.