Di Riccardo Rossella.Da WOTS, 29/11/2018
Una sensazione che avverto con forza ogni volta che arrivo nell’Oriente, la regione amazzonica dell’Ecuador, è lo stupore nel trovarmi circondato da una natura maestosa. La straordinaria biodiversità si può toccare con mano, la vegetazione ricopre ogni spazio disponibile, dominando completamente il paesaggio. Così è anche nelle province di Sucumbiós e Orellana, nel nord-est del paese: uno scenario di natura incontaminata. Ma mai come in questo caso l’apparenza inganna.
Un’area che si estende per oltre 480.000 ettari (poco meno della superficie della Liguria) a cavallo delle due province è stata teatro di uno dei più gravi disastri ambientali di sempre, dovuto a decenni di contaminazione causata dal colosso petrolifero Chevron-Texaco. Il combustibile e i suoi residui tossici sono presenti ovunque: nell’acqua, nell’aria, nel suolo, nelle piante. È sufficiente scavare poche decine di centimetri nel terreno, o nel letto di uno degli innumerevoli corsi d’acqua della zona, per rendersi conto che il manto rigoglioso della vegetazione amazzonica affonda le sue radici nel greggio.
Una lunga storia di contaminazione
Anche le radici di questa vicenda sono profonde. Per fissare un punto di partenza occorre tornare indietro di oltre 50 anni: è infatti il 1964 quando il governo dell’Ecuador affida un milione di ettari di terreno in concessione al consorzio petrolifero formato dalle imprese statunitensi Gulf e Texaco. Dopo una prima fase esplorativa, le attività di estrazione del greggio hanno inizio nel 1972 e proseguiranno per due decenni, fino al 1992.
In questo arco di tempo i termini della concessione vengono modificati, l’area viene dimezzata a circa 500.000 ettari, nuove società (tra cui l’impresa statale ecuadoriana CEPE) entrano a far parte del consorzio e al suo interno le quote di partecipazione subiscono variazioni. La responsabilità relativa alla pianificazione, gestione ed esecuzione tecnica delle attività di estrazione rimane però sempre nelle mani della Texaco. Un elemento fondamentale per capire perchè questa impresa sarà al centro delle accuse mosse dalle comunità amazzoniche.
Come è stato ampiamente documentato, la Texaco decide infatti di ignorare i più basilari standard di prevenzione e protezione ambientale già diffusi da tempo negli Stati Uniti e gradualmente introdotti anche in Ecuador – seppure con un minor grado di dettaglio – nel corso degli anni ‘70. Tra questi figura l’obbligo di reiniezione nelle profondità del sottosuolo dell’acqua di produzione, termine tecnico per indicare i liquami tossici residui del processo di estrazione. La soluzione adottata dalla Texaco è invece quella di riversarli direttamente nei corsi d’acqua della regione, o nelle circa 900 fosse scavate direttamente nel terreno (le cosiddette “piscine”) senza alcun tipo di rivestimento isolante sul fondo che impedisca ai liquami di filtrare nel suolo. Il greggio viene riversato anche lungo le strade sterrate della zona per renderle più facilmente percorribili ai propri mezzi, mentre il gas proveniente dal sottosuolo – un sottoprodotto dell’estrazione del petrolio – viene bruciato da oltre 380 torri petrolifere, la maggior parte delle quali continuano tuttora ad avvelenare l’aria circostante.
Si tratta di una serie di operazioni che, come denunciano le popolazioni colpite, sarebbe frutto di una precisa strategia volta a ridurre al minimo i costi, approfittando del contesto geografico, economico e socio-culturale teatro delle attività di estrazione. Ci troviamo infatti in una delle aree meno sviluppate e più scarsamente popolate dell’Ecuador, caratterizzata da povertà, analfabetismo e frammentazione delle vie di comunicazione. La popolazione locale non ha cognizione degli effetti dannosi del petrolio sull’ambiente e sulla vita di uomini e animali. Tale mancanza di consapevolezza è stata sfruttata a proprio favore dalla Texaco, come dimostrato da Las palabras de la selva, un esaustivo lavoro di ricerca condotto tra la popolazione locale dal quale emerge chiaramente la mancata opera di informazione da parte dell’impresa sui rischi relazionati alle attività estrattive. Non solo: in alcuni casi il petrolio e i suoi derivati vengono dipinti come prodotti innocui per la salute umana, quando non addirittura benigni.
Donald Moncayo è sub-coordinatore della Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco (UDAPT), l’organizzazione che riunisce e rappresenta le popolazioni colpite dalla contaminazione. All’epoca in cui le attività estrattive raggiunsero il loro massimo Donald era un bambino, ma si ricorda bene quale fosse il rapporto degli abitanti dell’area con il petrolio: «Nessuno sapeva che fosse tossico. L’impresa ci continuava a ripetere che faceva bene, che era come una medicina. E noi ingenuamente ci abbiamo creduto. La gente si bagnava nei fiumi pieni di petrolio, camminava a piedi nudi sopra le chiazze riversate sul terreno. I bambini, incuriositi da questa strana sostanza appiccicosa, ci affondavano le mani per giocarci. Ora sappiamo che il petrolio contiene più di duemila sostanze tossiche»prosegue Donald, «all’epoca lo ignoravamo. Abbiamo cominciato ad accorgerci che qualcosa non andava quando sempre più persone hanno iniziato ad ammalarsi e morire, soprattutto di cancro.»
L’impronta tossica di oltre due decenni di cattive pratiche estrattive assume dimensioni impressionanti. Le stime della campagna Clean Up Ecuador parlano di approssimativamente 64 miliardi di litri di acqua di produzione riversati nell’ecosistema amazzonico, ai quali si aggiungono oltre 650.000 barili di greggio nel suolo e lungo le strade. L’impatto sulla vita e la salute delle oltre 30.000 persone che popolano la zona contaminata, strettamente dipendenti dall’ambiente circostante per il soddisfacimento dei propri bisogni di base, è enorme.
Due delle popolazioni indigene residenti nell’area da tempi ancestrali, i Tetetes e i Sansahuaris, sono scomparse a causa dell’impatto dell’industria estrattiva. Non solo inquinamento, ma anche invasione illegittima del proprio territorio, abusi fisici e psicologici e violazioni dei diritti umani. Secondo un recente studio effettuato dalla stessa UDAPT in collaborazione con le organizzazioni Clinica Ambiental e Centrale Sanitaire Suisse Romande, una madre su tre ha sofferto di aborti spontanei, mentre in una famiglia su quattro esiste almeno un componente che ha contratto un tumore. Il cancro rappresenta la manifestazione più evidente della contaminazione petrolifera: nell’area presa in esame dallo studio l’incidenza è svariate volte superiore rispetto alla media nazionale, fino a 8-10 volte maggiore nel caso di alcune tipologie come il tumore al fegato, all’utero e alle ossa.
La battaglia legale delle vittime
Le attività estrattive della Texaco proseguono fino al 1992, anno in cui scade il periodo di concessione e le operazioni di estrazione passano in mano all’impresa petrolifera statale Petroecuador. A quel punto la Texaco lascia l’Ecuador.
Gli effetti di decenni di sversamenti sono però oramai del tutto evidenti, e il governo ecuadoriano ne chiede timidamente conto. Nel 1995 viene infatti firmato un contratto di riparazione ambientale tra l’impresa statunitense e lo Stato ecuadoriano, finalizzato alla bonifica dell’area inquinata. Secondo quanto accusano le popolazioni colpite, però, gli interventi vengono effettuati solo in minima parte e in maniera del tutto inadeguata. Alcune “piscine” vengono semplicemente ricoperte di terra, senza procedere a un’efficace rimozione dei liquami tossici, mentre la maggior parte di esse non vengono interessate in nessun modo dall’opera di bonifica.
Nel frattempo, la progressiva presa di coscienza da parte della popolazione locale porta un gruppo di 75 agricoltori e rappresentanti delle 6 nazionalità indigene che vivono nell’area (Kofan, Siekopaai, Siona, Kichwa, Shuar e Waorani) ad avviare nel 1993 un’azione legale contro la Texaco presso la corte di New York. È l’inizio di una lunga battaglia legale tuttora in corso. La complessità del caso ha provocato una dilatazione dei tempi della giustizia che ha pochi eguali: sono necessari diversi anni solo per la realizzazione delle decine di ispezioni giudiziali e perizie tecniche e delle migliaia di analisi chimiche prodotte da entrambe le parti in causa, che sono poi confluite in decine di migliaia di pagine di atti processuali.
A seguito delle pressioni di Texaco – nel frattempo acquisita dalla Chevron nel 2001 – nel 2002 il caso viene spostato dagli Stati Uniti all’Ecuador, dove l’impresa ritiene di poter ottenere con maggiore facilità una sentenza favorevole. Aspettative che vengono però disattese quando nel 2011 il tribunale provinciale di Sucumbíos emette una storica sentenza a favore dei querelanti, condannando il colosso statunitense al pagamento di 9,5 miliardi di dollari USA. A tanto ammonta infatti la cifra ritenuta necessaria per il risanamento completo dell’area contaminata e la messa in atto un programma di cure mediche a favore della popolazione locale. Per l’opera di bonifica prevista dall’accordo del 1995 erano stati impiegati appena 40 milioni di dollari.
La sentenza di condanna viene confermata presso tutte le istanze giudiziarie ecuadoriane: dallo stesso tribunale di Sucumbiós nel 2012, dalla Corte Nazionale di Giustizia l’anno successivo e infine, dopo una lunga attesa, dalla Corte Costituzionale nel luglio del 2018. Il pagamento da parte di Chevron della somma destinata al risanamento ambientale sembra però ancora lontano.
Chevron non ha mai riconosciuto la sentenza e, dal momento che ha ritirato tutti i suoi capitali dall’Ecuador, non è possibile procedere alla confisca dei beni come misura di compensazione. La tesi dell’impresa è quella di essere vittima di una truffa orchestrata dai querelanti ecuadoriani e dagli avvocati che si sono occupati del caso al fine di estorcerle denaro. La controffensiva si è manifestata con l’avvio di procedimenti legali paralleli presso tribunali statunitensi e internazionali e in un’accanita campagna mediatica volta a screditare i protagonisti della vicenda. Tra questi spicca il nome di Pablo Fajardo, il principale avvocato e volto pubblico del caso, vincitore nel 2008 del prestigioso Goldman Environmental Prize in riconoscimento del ruolo ricoperto nella controversia giudiziaria in favore delle istanze della popolazione locale.
Impunità corporativa globale e la proposta di un trattato vincolante
Allo stato attuale, l’unica via per ottenere il pagamento imposto dalle Corte ecuadoriana sembra essere l’applicazione del verdetto presso le giurisdizioni di stati dove Chevron è tuttora presente, come Argentina, Brasile e Canada. Un’impresa però tutt’altro che facile: la difficoltà di dimostrare inequivocabilmente il legame tra le società sussidiarie che operano nei diversi paesi e l’impresa madre è stata la causa principale del mancato accoglimento dell’istanza da parte dei tribunali stranieri. Dal momento che tali società godono di personalità giuridica propria, l’applicazione della sentenza nei loro confronti risulta infatti estremamente difficile.
Il caso Chevron-Texaco è rappresentativo delle distorsioni causate dal cosiddetto schermo societario, come viene chiamato il meccanismo attraverso il quale le grandi imprese multinazionali – articolate in diversi livelli di società sussidiarie – riescono a ottenere considerevoli benefici fiscali e, come in questo caso, legali.
Secondo Fajardo ci troviamo di fronte a un vero e proprio sistema globale di impunità corporativa. «Mentre gli interessi economici delle multinazionali vengono tutelati grazie ai trattati bilaterali e ai sistemi internazionali di arbitrato tra imprese e stati, fortemente squilibrati a favore delle prime, non esiste alcun meccanismo che renda possibile rendere le stesse imprese responsabili per il proprio operato e garantire l’integrità dei diritti delle popolazioni e comunità dove esse operano.»
Questa chiave di lettura è fondamentale per capire perché il caso Chevron-Texaco sia diventato così importante e conosciuto al di fuori dei confini ecuadoriani, e non solo per la portata del disastro ambientale, annoverato tra i più gravi della storia. Si tratta infatti di un raro caso in cui una class-action avviata da rappresentanti di piccoli agricoltori e nazionalità indigene contro una delle più importanti imprese petrolifere del mondo ha visto uscire vittoriosi i primi. Un eventuale pagamento della somma stabilita dalla Corte ecuadoriana segnerebbe quindi un precedente storico di fondamentale rilevanza per qualsiasi contesa tra popolazioni locali e imprese multinazionali.
Un impulso in questa direzione potrebbe arrivare dalle Nazioni Unite. All’interno del Consiglio dei Diritti Umani è infatti in discussione una proposta di trattato vincolante peer le società multinazionali, finalizzato a garantire la diretta responsabilità delle imprese in caso di violazioni delle normative nazionali. L’obiettivo è quello di superare l’attuale impianto basato su linee guida e codici di condotta il cui rispetto avviene su base meramente volontaria, creando uno strumento giuridicamente vincolante che faciliti la possibilità per le comunità locali di accedere alla giustizia.
Il processo di discussione, iniziato nel 2014 grazie all’impulso proprio dell’Ecuador e del Sudafrica, sta però avanzando con fatica a causa delle resistenze dei paesi industrializzati, sede delle maggiori imprese multinazionali, in primis Stati Uniti e Unione Europea. Anche l’Italia è chiamata in causa, alla luce del recente avvio di un’azione legale da parte della comunità nigeriana Ikebiri conto Eni , accusata di sversamenti di petrolio nella zona del delta del Niger. Un caso le cui dinamiche ricordano molto da vicino la vicenda Chevron-Texaco in Ecuador.
Con ogni probabilità occorrerà attendere ancora a lungo affinché tanto l’adozione del trattato quanto la conclusione del contenzioso legale tra le popolazioni amazzoniche ecuadoriane e Chevron-Texaco diventino realtà. Sembra però evidente che uno strumento internazionale vincolante appare quanto mai necessario per far fronte all’impunità diffusa di cui godono le grandi multinazionali, ed evitare che ciò che è accaduto nell’Oriente ecuadoriano possa ripetersi in altre parti del pianeta.