di Roberta Granelli e Diego López,
foto di Stefano Morrone e traduzione di Caterina Morbiato.
Circa un mese fa, il 10 dicembre 2019, il Palazzo di Belle Arti di Città del Messico è stato lo scenario di una realtà ancora troppo comune in questa metropoli. L’omofobia, il machismo, e la transfobia si sono scagliati contro cinque manifestanti. Cinque persone che si erano riunite non solo per difendere un’opera ma soprattutto per riaffermare chiaro e tondo: “siamo qui e non ce ne andiamo”.
Il 2019 è stato l’anno di Emiliano Zapata e per l’occasione il museo del Palazzo di Belle Arti ospita (da novembre dell’anno passato a febbraio 2020) la mostra Emiliano. Zapata después de Zapata (Emiliano. Zapata dopo Zapata), un progetto che ripercorre le rappresentazioni artistiche realizzate attorno alla figura dello storico rivoluzionario lungo gli ultimi cent’anni. Tra le tante opere esposte, in un angolo sperduto tra le sale, si trova un quadro dell’artista messicano Fabián Chairéz intitolato “La Revolución”. E’ un olio su tela che misura una trentina di centimetri per lato in cui Zapata è rappresentato nudo, con la pelle scura e in groppa a un cavallo. Nel dipinto, lo storico leader guerrigliero indossa un ampio sombrero color rosa acceso e un paio di scarpe con tacchi a spillo che si trasformano in pistole. Il ronzino che monta è bianco, si libra con eleganza e il suo pene ha un’evidente erezione. Una fascia tricolore —con il rosso, il bianco e il verde della bandiera messicana— avvolge il petto, le braccia e la schiena di Emiliano. Nel quadro di Chairéz, il leader della rivoluzione messicana adotta una postura sensuale e di godimento che accentua una sessualità effeminata, frocia e per nulla virile. O, sarebbe meglio dire, per nulla virile secondo i canoni della virilità messicana: quelli che rappresentano l’uomo come un conquistatore, un macho, un tipo sfrontato e rude.
Ai discendenti di Emiliano Zapata, la rappresentazione che “La Revolución” fa del loro antenato non è particolarmente piaciuta. E così, accompagnati da due gruppi di organizzazioni che si denominano campesinas zapatistas —la UNTA (Unione Nazionale di Lavoratori Agricoli) e la CIOAC (Centrale Indipendente di Operai Agricoli e Contadini) —, i familiari del leader rivoluzionario arrivano fino al Palazzo di Belle Arti la mattina del 10 dicembre. Quello che più sembra averli offesi dell’opera “La Revolución” sembra essere la rappresentazione fallita della mascolinità di Emiliano. Una mascolinità quasi sacra. Zapata è considerato l’eroe della patria, l’icona dell’epoca post-rivoluzionaria, il pilastro della costruzione dello stato nazione. Un simbolo che non smette di essere al centro di tanta retorica nazionalista. L’eroe, quindi, non può essere trasformato in un essere femmineo. Men che meno adottarne i tratti sessuali. Essere frocia, omosessuale, gay, donna, e tutto quello che questi esercizi della sessualità rappresentano significa femminizzarsi. E questo, a quanto pare, significa ruzzolare verso i bassifondi della scala sociale: in quel sottosuolo indegno in cui il simbolo perde onore ed è spogliato del suo valore.
“Ho visto il machismo misogino negli occhi e non lo dimenticherò mai”
“Fate schifo! Nessuno vi accetta!”
“Nemmeno gli animali fanno le porcherie che fate voi”
Una dopo l’altra, le frasi omofobe e degradanti riecheggiano nell’atrio del Palazzo di Belle Arti. Gli integranti delle due organizzazioni —la UNTA e la CIOAC— sono riusciti ad entrare nell’edificio e a piazzarsi sulla grande scalinata che porta alla mostra. Bloccano l’entrata e l’uscita e minacciano di dar fuoco a “La Revolución”.
Non sono gli unici presenti: anche dei rappresentanti della comunità lgbt+ si trovano all’interno del Palazzo ed è contro di loro che si dirigono gli insulti. Le cinque persone della comunità lgbt+ —giornalisti tre di loro— sono accorse per partecipare alla conferenza stampa del curatore della mostra, ma anche per manifestare contro le organizzazioni campesinas zapatistas che esigono che il piccolo quadro venga ritirato dalla rassegna che commemora il loro leader.
Le ingiurie vengono lanciate dalla scalinata come proiettili.
“Che se ne vadano via questi malati di aids!”, grida qualcuno.
“Si, ho l’aids!”, gli risponde uno dei manifestanti della comunità lgbt+. “Ci convivo da dieci anni e non sono morto: continuo a stare qui!”.
La tensione aumenta fino a quando il dirigente della UNTA, Álvaro López Río, lancia una bottiglia in faccia a uno dei membri della comunità lgbt+. Una delle rappresentati di Belle Arti decide quindi avvicinarsi ai cinque manifestanti e li invita ad uscire dal Palazzo per poter “dialogare”, visto che gli animi si stanno surriscaldando.
L’uscita, però, non è pacifica. Con il palo di una bandiera, una donna colpisce alla schiena uno dei manifestanti che cerca di sottrarle l’arma: la situazione precipita. Partono pugni, spintoni, calci. Una volta fuori, sotto un sole che picchia, i colpi aumentano. Contro le cinque persone si abbattono in gruppo: sono troppi e troppo furiosi. Gli aggrediti si difendono come possono, mentre delle autorità nemmeno l’ombra. Allora scappano fino ai giardini della Alameda Central che lambiscono il Palazzo di Belle Arti. Qui, finalmente, dei vigilanti accorrono per proteggerli.
“Ho visto il machismo messicano negli occhi di quelle persone. E ho capito che la città gay friendly non esiste, quello che sembra valere sono solo le propagande turistiche”, racconterà poi uno degli aggrediti in un post di Facebook. Poche ore dopo quell’aggressione furibonda racconterà, sulla bacheca del social, che non era la prima volta che veniva picchiato per essere considerato un puto, che già aveva ricevuto insulti e sguardi giudicanti (pieni di confusione e ribrezzo di chi lo guardava e non capiva “cosa fosse”), ma che quello che aveva vissuto a Belle Arti non l’avrebbe dimenticato mai.
“Stare lì, sottobraccio con compagnx che non conoscevo e accerchiato da centinaia di persone che rappresentavano perfettamente la misoginia di questo paese, e mantenere lo sguardo in alto è stata una delle cose che mi ha fatto sentire più paura in vita mia”, continua a raccontare. La paura però non era per la minaccia della violenza fisica ma il fatto che si trovasse, impotente, di fronte alla realtà del suo paese.
“Quando uno di quei machos mi ha detto che, se avessimo fatto un sondaggio, avremmo saputo che facciamo schifo a tutti, ho capito che era la verità”.
Reazioni a catena
Nonostante la differenza numerica fosse evidente le istituzioni non sono intervenute. I due gruppi erano uno di 200 persone e l’altro di cinque, ma la direzione del Palazzo di Belle Arti ha deciso non prendere posizione né per l’uno né per l’altro. Di fronte al sangue sparso sul marmo bianco del Palazzo, il rappresentante della Protezione Civile dell’Istituto di Belle Arti ha gentilmente chiesto a uno degli aggrediti: “per favore, non fatene più di manifestazioni per difendere questo quadro”. Le manifestazioni però sono continuate. Nei giorni successivi, le organizzazioni ed i collettivi lgbt+ hanno indetto presidi ed eventi davanti al Palazzo di Belle Arti. Anche vari rappresentanti di Morena —il partito del presidente López Obrador— hanno accompagnato le proteste.
Nel frattempo le istituzioni sono riuscite a prendere una posizione, pubblicando un comunicato a favore della libertà d’espressione. “La Revolución” é diventata la protagonista indiscussa della mostra e grazie a lei le visite sono aumentate abbondantemente (fino al 15 di dicembre si era registrata un’affluenza di circa 23mila persone).
La famiglia Zapata ha annunciato che avrebbe fatto causa all’artista, lo stesso Fabián Chairéz, qualche ora dopo gli scontri, ha negato che l’olio rappresentasse il rivoluzionario. Anche se continua a mantenere il suo posto (ormai d’onore) nella mostra Emiliano. Zapata después de Zapata, dal 10 dicembre la tela di Chairéz è accompagnata da una targa che spiega:
“I discendenti di Emiliano Zapata hanno manifestato il loro disappunto rispetto a questa immagine. Non la considerano una rappresentazione di Zapata. Grazie alla mediazione effettuata dalle autorità della Segreteria di Cultura e l’Istituto Nazionale di Belle Arti e Letteratura, il museo del Palazzo di Belle Arti manterrà l’opera esposta, basandosi sul principio della protezione del diritto di libertà artistica e creativa”.
Arcobaleno messicano
Quanto successo fa riflettere sull’appellativo di amigable —ovvero friendly— che questa città ha ricevuto negli ultimi anni. Qual è la forma adeguata ed accettabile di essere lesbica, gay, bisessuale, trans (+) e poter ricevere un’adeguata protezione da parte delle istituzioni? Quali corpi possono godere del diritto di essere cittadinx e quali invece no? Quali manifestazioni sono legittime, in che contesti, con quali motivi?
Mentre, in questo come in altri episodi, le istituzioni negano l’aiuto alla comunità lgbt+, l’etichetta di città friendly continua a brillare sui tetti della megalopoli, e in particolare sul quartiere della Zona Rosa, una delle mete più attraenti per le centinaia di turisti che arrivano qui per immergersi nell’esotica “frociaggine” della capitale.
In questa mappa urbana si incrociano le frontiere tra le varie periferie ed i vari centri. Alcuni corpi sono riconosciuti dal capitalismo e dalle istituzioni come degni poiché bianchi, abili, rappresentanti di uno status economico (o aspiranti tali). Questi corpi si muovo in determinate zone, evidenza di come la città friendly esista in punti specifici della mappa urbana, abbia frontiere ben marcate, detti forme di consumo e di stile, escluda coloro che si manifestano e si espongono ed emargini le persone che non rientrano nelle regole dettate dall’omonormatività. Nella città “amichevole”, il pinkwashing serve a mascherare la mancanza di diritti e di ridistribuzione delle risorse (dai servizi sanitari all’accesso abitativo, alla possibilità di movimento etc.), non solo per la popolazione lgbt+ ma, per l’intera popolazione precarizzata, questa città ha ben poco di friendly.
Al termine di queste giornate nascono molte riflessioni sull’intersezionalità emblematica che rappresenta questo Zapata —eroico ed erotico— che da guerrigliero e simbolo delle rivendicazioni di classe e di difesa del territorio è diventato anche simbolo della lotta delle dissidenze. Eppure, anche se idealmente si pensa che l’unione delle lotte possa essere un orizzonte condiviso, è necessario riaffermare che non esiste la lotta di classe senza la lotta all’eteropatriarcato. Che senso avrebbe riproporre modelli omonormativi utili solo al mercato e posti al servizio di una identità nazionale escludente, classista e razzista? Oggi, se Zapata vivesse, non si unirebbe di certo alle proteste contro l’opera che lo ritrae. Al contrario, come recitava lo slogan delle proteste di dicembre — “Si Zapata reviviera, en tacones anduviera” — camminerebbe su un bel paio di tacchi a spillo.
Photogallery di Stefano Morrone
Venerdì 13 dicembre, 2019 – Manifestazione davanti al Palazzo di Bellas Artes