
Nel primo capitolo della rubrica fotografica Ruido abbiamo intervistato Fred Ramos, un fotogiornalista che documenta le cause strutturali che hanno generato i flussi migratori che attraversano il Centroamerica
Fred Ramos è un fotografo salvadoregno che vive in Messico e lavora per il quotidiano El Faro. Nel 2014 ha vinto il World Press Photo nella categoria Daily Life con il suo progetto The Last Outfit of the Missing che racconta la violenza della criminalità nel suo Paese tramite gli indumenti ritrovati sui corpi delle vittime, molto spesso gli unici elementi utili per identificare i cadaveri. Qui ci presenta invece un estratto dal suo ultimo lavoro Dark Triangle e ci racconta quali sono le domande a cui cerca di dare una risposta con la sua macchina fotografica.
In Dark Triangle compaiono foto di matrimoni, molotov, funerali e polizia di frontiera. Qual è il filo conduttore che le lega e quali sono i luoghi e i tempi in cui hai realizzato queste immagini?
Ho iniziato a costruire questa storia nel 2015, ci lavoro da 5 anni, praticamente tutte le fotografie sono state scattate tra Honduras, El Salvador, Guatemala e Messico, ho anche una parte riguardante il Nicaragua, ma ci sto ancora lavorando quindi non rientra nell’attuale selezione. Con queste foto vorrei spiegare i motivi per cui i centroamericani emigrano negli Stati Uniti, per dare a chi le vede un’idea più chiara della situazione da cui fuggono. Dal Nicaragua, fino a due anni fa, non c’era una forte migrazione verso gli Stati Uniti, ma con la crisi politica il flusso migratorio ha cominciato a intensificarsi, quindi sto pensando di includerlo in una nuova edizione del lavoro. La maggior parte delle fotografie mostrano situazioni tese: proteste, membri di bande nelle carceri, migranti in cammino, omicidi, bambini armati, queste sono le immagini con le quali illustro le ragioni più dirette che spingono i centroamericani a fuggire dai loro paesi. Ma non c’è solo violenza, ad esempio la fotografia del matrimonio Maya, che anche se non è esplicitamente cruenta, mostra come la vita di tutti i giorni, nonostante le situazioni difficili e la povertà, cerchi di continuare.

Com’è nata l’idea di realizzare questa storia?
È un’idea che nasce dal mio archivio, a differenza degli altri miei lavori che sono stati concepiti grazie allo studio, alle riflessioni, alle letture e all’analisi delle tematiche, e solo in un secondo momento ho afferrato la macchina fotografica per iniziare a scattare. In questo caso è successo il contrario, è un progetto che nasce da storie diverse che stavo realizzando per un giornale locale, El Faro, per cui ho lavorato negli ultimi anni coprendo le diverse crisi politiche in America Centrale, fotografando la violenza, la povertà e gli effetti del cambiamento climatico. Quando ho seguito la prima carovana migrante partita dall’Honduras nel 2018, ho definito meglio il progetto, documentando l’esodo delle migliaia di persone che stavano fuggendo da tutte quelle problematiche che avevo fotografato negli ultimi anni. Durante la carovana, i migranti si trovavano spesso a dover spiegare perché stavano fuggendo, perché stavano andando negli Stati Uniti, la gente ancora non lo capiva, e io avevo fotografato le risposte a tutte quelle domande.

Come valuti la rappresentazione mediatica della realtà centroamericana promossa dai giornali e dai mezzi di informazione internazionali?
Penso che in generale quelli che svolgono il lavoro migliore siano i media locali, sono quelli che conoscono l’argomento, i giornalisti locali che hanno lavorato sullo stesso tema per molto tempo, che chiedono i permessi e attendono mesi prima di poter continuare con la loro ricerca In generale, i media internazionali coprono le tematiche di cui ti ho parlato in maniera superficiale. Di solito si fermano solo un paio di giorni e se ne vanno. Penso che in alcuni casi ci voglia molto rigore e autodisciplina, perché a volte gli editori hanno già delle idee preconfezionate riguardo all’estetica, alle storie e a ciò che accade nei paesi al di fuori degli Stati Uniti. In altre parole, quando pensi a un membro di una gang pensi a un ragazzo tatuato con una faccia cattiva, questo cercano i giornali. Invece, ad esempio, nella foto di Rudy, un giovane membro di una banda, vedi un ragazzo che non ha nulla di quell’estetica criminale. A volte i giornali rifiutano alcune di queste storie perché non sono conformi a ciò che hanno già in mente. A volte anche i giornalisti locali commettono questi errori, forse perché vogliamo che accettino il nostro lavoro, a volte cadiamo in cliché delle tipiche immagini che alimentano i soliti preconcetti. Penso che se gli editori assumessero più fotografi locali, questa dinamica potrebbe cambiare. Ad esempio qui in Messico, se vai n una comunità dell’entroterra del Paese, trovi sempre immagini che si ripetono, come l’uomo con il sombrero. In El Salvador, ad esempio, quando parli di pandillas, ci sono due grandi bande, la MS-13 e la Barrio 18. Sebbene si equivalgano in termini di forza e pericolosità, gli editori preferiscono sempre un membro della MS rispetto alla Barrio 18, forse perché la MS è la banda più internazionale. Non mi piacciono i reportage che si focalizzano sulla redenzione o sulla violenza personale, che servono solo a riprodurre certi cliché. Credo in un giornalismo critico, è quello che ho imparato durante il mio apprendistato al El Faro in El Salvador.

Quali sono le storie dietro le fotografie che hai scattato? Cos’è rimasto fuori dall’inquadratura?
La foto del bambino con la maschera del diavolo è forse una delle foto più iconiche del mio lavoro. Questa fotografia oltre ad essere potente a livello estetico è legata a una storia molto significativa. Il soggetto ritratto nella foto è un bambino di sei anni che stava giocando sui binari del treno tre giorni prima della notte di Halloween e stava fuggendo dall’Honduras perché alcuni membri delle pandillas volevano reclutarlo e sua madre lo aveva portato via da un giorno all’altro per recarsi negli Stati Uniti. Sperava di garantirgli così la possibilità di studiare e costruirsi una vita felice. Penso che questa immagine ti pone davanti a una domanda: i migranti sono demoni che vengono a invaderci o sono persone che noi stessi trasformiamo in demoni a causa di tutti i pregiudizi che abbiamo? Per questo mi piace questa fotografia, perché ti pone delle domande piuttosto che darti delle risposte.

Come ti relazioni con le persone che fotografi?
Non c’è sempre la stessa opportunità, il tempo per stabilire delle relazioni. A volte sono persone che incontri per momenti molto fugaci, come in molte fotografie del mio lavoro, mentre a volte capita di avere un po’ più di relazione e penso che ciò si rifletta nella fotografia. Per esempio con Rudy, il ragazzo con la pistola, avevo costruito un legame molto stretto con lui, provavo molta empatia perché, anche se faceva parte di una pandilla e aveva commesso diversi crimini, era un ragazzo che voleva uscirne. Ha provato davvero con tutte le sue forze a uscirne, tradendo la sua stessa banda, scappando dalla polizia e dalle pandillas, entrambe lo stavano cercando per ucciderlo. La pistola che ha nella foto l’aveva rubata alla sua banda e poi l’ha venduta per potersi pagare il viaggio e fuggire. Purtroppo alla fine Rudy è morto, la polizia è andata a cercarlo a casa sua e lo ha fatto scomparire. Questa storia mi ha toccato molto perché speravo che Rudy potesse finalmente lasciarsi il suo passato alle spalle e rifarsi una vita normale. Se doveva pagare per i crimini che aveva commesso con il carcere, gli dovevano dare l’opportunità di farlo, dopo aver scontato la sua pena sarebbe comunque potuto uscire e vivere una vita normale. Ma non ha mai avuto la possibilità di pagare per i suoi crimini, perché non lo hanno catturato per portarlo in prigione, lo hanno sequestrato per farlo sparire. Ho mantenuto i contatti con Rudy per quasi un anno, ci ho parlato quasi ogni giorno, o almeno diverse volte alla settimana. E andavo a visitarlo ogni mese. Non è qualcosa che puoi fare sempre, sarebbe molto difficile avere una relazione con tutte le persone che fotografi, ma a volte ci sono persone con le quali ti crei un legame più profondo.

Pensi il fotogiornalismo critico possa avere un impatto sulle problematiche che cerca di raccontare?
È una domanda molto complicata, a volte penso che il nostro lavoro non abbia un impatto, a volte invece penso che possa cambiare la società. È difficile, onestamente il più delle volte penso che non ci sia un impatto concreto sulla realtà, le situazioni dei paesi in via di sviluppo sono così difficili e a volte noi giornalisti vogliamo credere che stiamo cambiando il mondo con il nostro lavoro, ma la verità è che la maggior parte delle volte ciò non accade. A volte penso il contrario, penso che una fotografia può innescare un cambiamento, ma succede molto più lentamente di come ce lo immaginiamo. Penso che ci debba essere una combinazione di fattori per produrre dei veri cambiamenti. Ad esempio, in questo momento molte delle immagini che vediamo riguardanti le violazioni dei diritti umani da parte della polizia, stanno avendo in qualche modo un impatto forte sulla realtà. La situazione è favorevole, le stelle sono allineate. Ad esempio il video di Giovanni Lopez, il ragazzo di Guadalajara ucciso dalla polizia, non avrebbe avuto lo stesso impatto che ha generato in queste settimane, se non ci fossero state le rivolte negli Stati Uniti. Il caso del ragazzo di Oaxaca, Alexander Martinéz, non avrebbe avuto alcun impatto se fosse stato denunciato un mese fa. Penso quindi che sia anche una combinazione di molti fattori, non è solo il nostro lavoro a determinare l’influenza delle foto sulla società. Noi giornalisti vogliamo credere che con una fotografia possiamo cambiare il mondo, ma se il mondo non è pronto per questa fotografia è molto difficile che accada. Non puoi avere la certezza che succeda e non puoi controllare tutte le variabili, devi continuare e perseverare e ad un certo punto potrebbe essere che le stelle si allineino e la fotografia che hai scattato si adatti perfettamente alla situazione e possa avere un impatto forte sulla realtà.













Qui potete vedere altre storie e il progetto completo Dark Triangle e qui potete seguire Fred Ramos su instagram.