
Per il quarto numero della nostra rubrica Ruido, dedicata alla fotografia latinoamericana, abbiamo intervistato Isadora Romero, narratrice visuale ecuadoriana che produce la sua arte da una prospettiva femminista e promuovendo un approccio collaborativo e trans-mediale.
Di Gianpaolo Contestabile
Nei tuoi progetti combini l’uso della fotografia digitale con il video, la scrittura, le polaroid e il ricamo. Da dove nasce questa esigenza di utilizzare diversi strumenti e formati?
Ho studiato cinema prima ancora di studiare fotografia, quindi per me la foto rappresenta uno dei tanti formati che esistono, e a volte può’ essere limitato quando devo raccontare determinate storie. L’immagine è uno strumento ma quando mi imbarco in un progetto ci sono altre sensazioni, intenzioni, che con la sola immagine digitale non posso catturare né trasmettere, è lì che nasce la necessità di trovare altri media e altri formati. Credo inoltre che la fotografia sia un’arte e uno strumento comunicativo molto rigido, che viene percepito dall’esterno come un mezzo di comunicazione piatto, la gente crede che ciò che appare nella fotografia sia la realtà, c’è ancora questa concezione che vede le fotografie come qualcosa di reale. Potendo utilizzare altri strumenti posso espandere e rendere la fotografia più flessibile e fluida. Per questo ho iniziato a creare progetti multimediali con le immagini che stavo realizzando, facendo video e catturando audio.

Per il progetto 7.8, che documenta i sopravvissuti al terremoto del 2016 in Ecuador, le persone ritratte sono intervenute sulle loro fotografie. Era un bisogno che avevamo insieme a Misha Vallejo, l’altro fotografo con cui ho collaborato. C’era il bisogno di creare qualcosa mentre tutto intorno a noi era andato distrutto, per cui abbiamo usato le polaroid che sono istantanee, che sono oggettuali, sono qualcosa che può essere toccato. Volevamo che le persone fotografate potessero toccare la materialità dei loro ritratti. Hanno scelto dove volevano essere ritratte e hanno partecipato al processo di generazione dell’immagine direttamente sul posto. Dopodiché hanno descritto con le loro parole cosa stava succedendo, cosa sentivano. Abbiamo scelto questa strada anche per allontanarci dal giornalismo rapido, che copre questo tipo di eventi tragici e drammatici scattando una fotografia veloce che poi diventa una statistica. Volevamo rallentare e cambiare questo processo per renderlo più materiale. E’ nata poi la necessità dell’oggetto e quindi questo progetto è diventato un libro, dove il tattile è molto importante per la storia che viene raccontata.

Con Bordado (ricamo) è successo qualcosa di simile, lo abbiamo realizzato ad Atitlan, in Guatemala, come parte del progetto Campo 20 Fotografi. Anche in quel caso volevamo generare una collaborazione perché spesso la foto risulta troppo unidirezionale, c’è solo il fotografo, la sua testa e il suo occhio, e anche tutti suoi preconcetti e il suo sguardo soggettivo di fronte a ciò che ritrae. Così ad Atitlan abbiamo parlato con le donne vittime di violenza di genere e abbiamo preso parte al processo raccontando le nostre storie di discriminazione e violenza. Nel bordado c’è qualcosa di molto importante, è un momento in cui le donne si incontrano come in un momento di catarsi, per cui le abbiamo chiesto di procurarsi delle fotografie, e altre le abbiamo generate noi, che rappresentassero i momenti di violenza. A quel punto abbiamo iniziato a ricamare su queste immagini come in un rito di guarigione. La cosa fondamentale di tutto il progetto è stato il momento in cui si è svolto l’incontro. In questo senso sono interessata alla fotografia in quanto può dialogare sia con chi la guarda, sia con me stessa in quanto fotografa, sia con chi sto interagendo, è come un ponte attraverso il quale mi interessa esplorare diverse narrazioni.

Nella tua biografia sono citati diversi premi importanti legati al fotogiornalismo, allo stesso tempo le tue foto sembrano andare oltre la semplice documentazione giornalistica, come riesci a includere la finzione, il simbolismo e la magia nei tuoi progetti?
All’inizio della mia carriera, nel mondo del foto-giornalismo e della fotografia documentaria, mi dicevano che le mie foto erano troppo artistiche per poter essere pubblicate su una rivista o su un giornale. Nel mondo dell’arte invece mi dicevano che le mie foto erano troppo foto-giornalistiche per poter essere esposte in una galleria. Personalmente mi piace stare su questa frontiera, perché considero la fotografia un linguaggio fluido e non mi identifico in nessuna delle due categorie. A causa di questa concezione, è stato difficile potermi guadagnare da vivere con quello che stavo facendo all’inizio del mio percorso professionale. Credo che oggi ci sia molta più apertura rispetto alla soggettività che si cela dietro l’immagine, una soggettività che, sempre rispettando tutti gli standard etici del foto giornalismo, può espandere l’immaginario dello spettatore rispetto alle storie che vengono raccontate, per esempio attraverso il simbolismo. Già negli anni ’70 Susan Sontag scriveva che non veniamo più scosse dal dolore che vediamo nelle immagini, siamo così abituate a vedere ogni giorno sangue e morte che non ci colpiscono più, non generano nessun cambiamento. Credo che all’interno del foto giornalismo stia nascendo la consapevolezza che lasciando spazio al simbolismo e cercando di aprire domande invece che dando tutto per scontato, possiamo far sì che lo spettatore si connetta da un’altra posizione. Le nostre forme di conoscenza non sono solo strettamente cognitive, c’è molto spazio per comprendere e percepire le immagini anche da un punto di vista emotivo.

Sento di essere stata influenzata dal modo in cui il mondo mi è stato raccontato sin da quando ero piccola, c’era molta magia, molta finzione, qualcosa che fa parte della cultura latinoamericana. Penso inoltre che i media siano colonizzati da queste storie violente e spettacolari che ovviamente sono necessarie e riescono a generare notizie immediate, ma allo stesso tempo vedo che stanno nascendo nuove narrazioni. Mi sembra che per esempio molte donne latinoamericane riescano ad andare oltre questo modello, raccontando il quotidiano per mostrare dove viene costruito il tessuto sociale. Purtroppo queste storie difficilmente raggiungono i mass media. Ma anche questo sta cambiando, vedo un interesse crescente verso altri tipi di storie, altri tipi di narrazioni. Spero che la barca continui a muoversi in questa direzione.

Quali sono i principali cliché della fotografia che si occupa di America Latina?
Lo sguardo coloniale e il folklorismo con cui sono stati rappresentati i latinoamericani è dovuto innanzitutto al fatto che la maggior parte delle fotografie che circolano nei media mainstream, i quali hanno sede generalmente al di fuori dell’America Latina, sono state realizzate da persone esterne, che hanno le proprie idee, i propri pregiudizi, i propri modi di vedere. Non credo che questo sia sbagliato ma se questa diventa l’unica narrazione che si consuma ed esporta allora sì che abbiamo un problema, perché stiamo lasciando da parte molte voci. In questo modo si privilegia uno sguardo più superficiale, quindi c’è molta folklorizzazione, c’è molta vittimizzazione. Fino all’inizio del XXI° secolo, l’America Latina è stata sempre rappresentata come un luogo avvolto nella violenza e nella povertà, è stato il suo stigma visivo. E’ importante mettere in discussione questa rappresentazione perché se continuiamo a consumare questo tipo di immagini che si auto-definiscono allora rischiamo di finire per sentircele incollate alla nostra identità. A questo si aggiunge la sofferenza delle donne, le foto di donne che soffrono, piangono, un’immagine così straziante che si ripete in svariate situazioni. Fortunatamente ora ci sono molti più narratrici che parlano da altri luoghi, che parlano di violenza, perché ovviamente non è che dobbiamo smettere di parlare delle cose che accadono e di fatto continuiamo a essere paesi terribilmente disuguali, ma ora stiamo esplorando altre modalità di espressione che si allontanano da questo vittimismo e che posizionano lo spettatore in un luogo che stimola il coinvolgimento. Perché non dobbiamo dimenticare che sono i problemi globali quelli che si traducono nelle nostre disuguaglianze.

Uno dei tuoi progetti che più di tutti riescono a trasmettere un messaggio politico attraverso le scene di vita quotidiane è Amazona Warikuma, come é nata l’idea di realizzare questa storia?
Questo progetto è iniziato nel 2007, un periodo durante il quale mi recavo spesso in una comunità indigena chiamata Sarayaku, nell’Amazzonia ecuadoriana, accompagnando altri fotografi per realizzare un lavoro documentaristico. La comunità di Sarayaku è situata nelle profondità della giungla e può essere raggiunta solo in aereo o in barca, ed è una comunità estremamente importante per l’Ecuador e l’America Latina perché hanno vinto una causa davanti alla Corte Interamericana dei diritti umani contro lo Stato ecuadoriano per aver consentito l’ingresso di imprese petrolifere che hanno svolto esplorazioni e perforazioni per sfruttare il petrolio nel loro territorio, una manovra che viene proibita dalla costituzione. Durante una delle nostre visite siamo arrivati casualmente durante una festa tradizionale che si celebra ogni tre anni e durante la quale gli uomini vanno a caccia nella giungla per una quindicina di giorni, e le donne rimangono nel villaggio. Il fotografo con cui lavoravo andò con i cacciatori mentre a me mi dissero che non potevo accompagnarli perché sono una donna e le donne non vanno a caccia. Quindi mi sono detta “wow, cosa farò qui per 20 giorni?”.

Già durante le visite precedenti ero rimasta incuriosita dalla loro concezione e comprensione del territorio, dalla loro lotta per proteggerlo, una lotta che viene alimentata giorno dopo giorno nella quotidianità. Di questo ne avevo parlato molto con le donne della comunità la prima volta che ci ero andata nel 2007, e durante quelle giornate di festa ho avuto l’opportunità di approfondire il loro rapporto con il territorio e la necessità che avevano di proteggerlo. Mi ricordo che pensavo quanto fosse incredibile ritrovarmi lì a vivere in un territorio di sole donne, di donne guerriere, era come stare tra le Amazzoni. All’epoca avevo iniziato a documentarmi su queste tematiche e avevo letto come gli spagnoli raccontavano nelle loro lettere l’incontro con le donne guerriere dell’Amazzonia. Durante quel periodo nella comunità vedevo riflesso e mescolato il mito con ciò che stavo vivendo. Per me è stata un’esplorazione simbolica, un incontro con la loro cosmovisione, con la conoscenza della loro quotidianità, del rapporto che esiste tra di loro, con la comunità, con i figli e l’ambiente. Ho appreso la differenza tra il concetto occidentale di conservazione ambientale e la loro concezione di un mondo interconnesso, nel quale se un albero si ammala significa che anche l’essere umano probabilmente si ammalerà. Il progetto è stato un’esplorazione simbolica di ciò che stavo vivendo con loro, e anche un’elaborazione del mio shock culturale nel ritrovarmi in un territorio che nonostante l’appartenenza alla giurisdizione ecuadoriana mi era totalmente sconosciuto. Questo cercare di condividere con loro e immischiarmi in questo territorio femminile è stata un’esplorazione personale, ho esplorato la mia femminilità e l’origine stessa della forza del femminile.

Oltre a essere coordinatrice del capitolo ecuadoriano della Women Photography hai anche insegnato fotografia in diversi luoghi del continente, credi che la fotografia possa funzionare come uno strumento di cambiamento sociale?
Penso che la fotografia in sé non sia in grado di cambiare più di tanto la realtà, a volte noi fotografe crediamo che il nostro lavoro sia estremamente importante per il mondo ma credo che sia una convinzione presuntuosa. Quello che invece possiamo fare è riuscire a generare legami tra le persone che vogliono conoscere alcune storie e noi che invece gliele possiamo raccontare in un modo particolare. Attraverso questo processo di scambio si può generare consapevolezza, si possono creare reti. Molte di noi che generiamo immagini ci chiediamo continuamente da dove le stiamo costruendo, quale narrativa stiamo alimentando, come il nostro lavoro riproduca modelli colonialisti, razzisti, machisti, come possiamo cercare di non replicarli? Penso che questa sia la cosa più arricchente del mio lavoro, soprattutto ora che posso mantenere aperto questo dibattito con altre persone e colleghe che si fanno le mie stesse domande. Penso che in questo particolare momento della storia del mondo sia essenziale ripensare questi modelli e non riprodurli con le nostre immagini. Quindi per quanto mi riguarda, partecipare nei processi educativi è sempre stato qualcosa di molto importante. Anche perché le donne, soprattutto le donne latinoamericane e del Sud globale, hanno avuto storicamente minori opportunità di accedere a un’istruzione di qualità, ai luoghi dove si generano i dibattiti, alle opportunità di mostrare il proprio lavoro o generare reddito. Per questo credo che costruire reti sia fondamentale, e proprio per questo abbiamo fondato una collettiva di fotografe latinoamericane che si chiama Ruda. Un gruppo nato proprio da questa esigenza comune, dal fatto che stiamo raccontando diverse tematiche che hanno però dei punti in comune. E’ fondamentale capire dal nostro punto di vista di donne e dissidenze sessuali come vediamo i nostri territori e i nostri problemi. Forse questa è la parte più arricchente del mio lavoro, la condivisione quotidiana con altre fotografe: ci svegliamo e ci chiediamo come affrontiamo questo problema, come ci relazioniamo le une con le altre o come ci posizioniamo in una determinata situazione. Ovviamente ritengo necessario e interessante anche creare collegamenti e scambi con la comunità oltre che tra noi addette ai lavori.

In Octubre documenti la rivolta popolare del passato autunno nella capitale ecuadoriana, come ti sei organizzata per fotografare questo particolare momento storico?
Questo lavoro è nato perché quando è scoppiata la rivolta non si capiva bene cosa stava succedendo. Le mie compagne di collettiva mi dicevano: “hey Isa, sai una cosa? Non abbiamo capito cosa sta succedendo in Ecuador, puoi dircelo?”. Solo che io non avevo risposte, e tutti i media dicevano cose che sapevo non essere vere. Poi ho iniziato a leggere molte affermazioni che circolavano sui social network che contenevano un livello di razzismo che non pensavo esistesse nel mio Paese. Come hai visto in altri miei lavori, non sono una fotoreporter da scoop giornalistici, impiego molto più tempo e costruisco storie a lungo termine, ma in quel momento era urgente per me uscire in strada e vedere con i miei occhi quello che stava succedendo. Ho deciso però di non stare in prima linea, soprattutto perché era molto pericoloso, c’era un livello di repressione incredibile. Ho preso quella decisione anche perché le immagini degli scontri sono quelle che vediamo sempre pubblicate sui media, per me però, per arrivare a quella prima linea devono esserci stati prima molti eventi storici all’interno del tessuto sociale che non possiamo non rendere visibili. Uno di questi è ovviamente il razzismo e il modo in cui venivano viste queste persone che hanno dovuto lasciare le loro famiglie, i territori, gli animali, per venire a rivendicare legittimamente i loro diritti e come la classe media e alta di Quito stava protestando contro di loro dicendo cose di un razzismo brutale. Il livello di disconnessione dalla realtà era così estremo che le popolazioni indigene, che erano la maggioranza all’interno delle proteste, non venivano nemmeno concepite come esseri umani.

Era diventato importante quindi restare indietro e osservare cosa succedeva nelle retrovie. Chi si prendeva cura dei bambini e chi preparava da mangiare per loro. Comunicare l’umanità di questi soggetti durante tutto quel trambusto e la velocità degli accadimenti. Era importante per me raccontare quei momenti di calma perché nessuno la stava comunicando. Ovviamente credo che sia fondamentale parlare della repressione, del fatto che stavano sparando negli occhi della gente, che stavano lanciando gas lacrimogeni in faccia ai bambini, cose che ho visto e vissuto anch’io, ma credo anche che nutrire esclusivamente questo linguaggio non ci porti da nessuna parte. Quello che ho fatto è stato utilizzare l’account della nostra collettiva per condividere le immagini e raccontare in prima persona cosa stava succedendo, e le persone che in quel momento non trovavano informazioni sui media online hanno iniziato a fare riferimento al nostro account. Ovviamente erano informazioni che dovevano essere verificate, ma è stata un’esperienza importante perché di lì a poco sarebbe successa la stessa cosa in Cile, e abbiamo fatto lo stesso con una nostra compagna da Valparaiso, e poi anche in Colombia e Bolivia, tutti questi fatti erano interconnessi, e noi stesse abbiamo potuto generare dei dibattiti, dei confronti che ti permettono di capire qual è il sistema che è stato imposto in America Latina e che in quel momento, in realtà da sempre, stava cominciando a crollare, e a generare malcontento.
