Aritana Yawalapiti, Cacique Generale del XINGU
Quasi 100.000 vittime del Governo Bolsonaro e siamo così codardi da normalizzare un crimine contro l’umanità compiuto in nostro nome
di Eliane Brum da El País
traduzione di Daniele Benzi e Manuela Loi
Vorrei cominciare esprimendo il mio orrore nello scrivere quest’articolo sui 100.000 morti mentre altre centinaia di loro sono ancora vivi e lottano per la vita. Tutti sappiamo che presto raggiungeremo i 100.000 morti. E questo è orrore. E non sappiamo quante altre migliaia si aggiungeranno, perchè in Brasile non esiste nessun controllo sulla diffusione del covid-19. Proverei orrore anche se si trattasse soltanto della fatalità di un virus. Ma sono convinta che non è di questo che si tratta. Una convinzione basata su fatti, come deve essere per una giornalista che manifesta la sua opinione. Il mio orrore è infinitamente più grande proprio perchè siamo testimoni di un genocidio messo in atto da Jair Bolsonaro e da tutti i suoi funzionari – con o senza uniforme, con le stellette sul petto o meno – che hanno il potere di decidere. Il mio orrore è scrivere sapendo che raggiungeremo i 100.000 morti e sentire che non abbiamo la forza per impedire un genocidio e, inoltre, che non abbiamo gente sufficiente – in Brasile e nel mondo – da sommare alla lotta per fermare un crimine contro l’umanità.
Chiedo perdono ai morti per la nostra debolezza come popolo. Chiedo perdono a nome dei giuristi e degli intellettuali che preferiscono negare perché, in fondo, Bolsonaro sarebbe solo un incompetente – e non un assassino consapevole e seriale. Qualcuno ancora storce il naso parlando di “banalizzazione”, denunciando che il termine sarebbe stato volgarizzato, senza rendersi conto che sono loro che banalizzano più di 1.000 morti al giorno. Chiedo perdono a nome di quella parte dei giornalisti che preferisce essere “imparziale” davanti ad un massacro, come se la presunta imparzialità fosse una scusante per la loro omissione in quanto esseri umani. Chiedo perdono a nome di chi sostiene Bolsonaro poiché riceve dal governo 600 reali al mese, perché conosco molte persone in situazione di povertà che esigono il rispetto del proprio diritto di essere assistite dallo Stato in una situazione di emergenza, ma non accettano la morte dell’altro. Chiedo perdono a nome di coloro che credono sia sufficiente firmare una petizione mentre si contano i morti. Chiedo perdono per quella parte dell’élite intellettuale volontariamente puerile in politica e priva del coraggio personale di assumere il proprio ruolo storico per fermare lo sterminio. Chiedo perdono per quella parte pusillanime della popolazione che, con le più svariate scuse, delega all’altro il compito di affrontare le questioni più difficili. Chiedo perdono per me stessa, per non essere in grado di fare il minimo sufficiente.
Tutti i giorni mi alzo dal letto e vado a dormire chiedendomi qual è il ruolo di una giornalista, di una cittadina, di una persona umana quando è testimone di un genocidio, e provo orrore perché già non so più cosa fare, perché sono state mandate almeno quattro petizioni al Tribunale Penale Internazionale ma, di fronte alle dimensioni di questo disastro, è ancora insufficiente il movimento internazionale di denuncia. Ancora sono molto pochi coloro che usano il proprio spazio per dare un nome all’orrore. E quindi, una volta di più, chiedo perdono per ciò che non può avere perdono.
Chiedo perdono a te, grande Aritana, cacique di Xingu, per la tua voce dalle molte lingue silenziata per sempre, perché Bolsonaro ha lasciato la foresta aperta agli agenti del virus, molti dei quali rispondono al nome degli usurpatori di terra e dei cercatori d’oro, e lo ha fatto con il sostegno dei generali della sua corte, eredi di una dittatura che ha assassinato 8.000 indigeni, nell’impunità. Chiedo perdono perché tanti bianchi pensano che negare misure di emergenza e persino acqua potabile agli indigeni nella pandemia, come ha fatto il governo, sia per “incompetenza” o un “fallimento della politica nella lotta contro il covid-19”. Chiedo perdono a te, Don Bié, Manoel da Cruz Coelho da Silva, quilombola[1] di Frechal, nel Maranhão, perché troppe persone pensano che morire più neri che bianchi sia “normale”. Ti chiedo perdono, Zia Uia, Clarivaldina Oliveira da Costa, quilombola di Rasa, a Rio de Janeiro, perché dopo tanti secoli di lotta per esistere in un paese fondato sul corpo degli schiavi, sei morta di razzismo. Chiedo perdono a te, Carlilo Floriano Rodrigues, che hai allevato sette figli con tanto affetto, e hai camminato con coraggio anche senza una gamba. A te, Alayde Antônia Rossignolli Abate, che non ti separavi mai dal tuo cane di nome Paçoca. Chiedo perdono a te, Roosevelt Guimarães Soares, che mentre eri in vita ti svegliavi alle tre del mattino per vendere angurie al mercato. Chiedo perdono a te, Delcides Maria Oliveira, che durante l’infanzia hai vinto la fame a cucchiaiate di caffè ma non sei riuscita a superare l’indifferenza del governo per i morti del covid-19. Chiedo perdono a te, adolescente Yanomami, morto a 15 anni e sepolto in una terra straniera come se il tuo corpo fosse un oggetto.
Io chiedo perdono a tutti i 100.000, ognuno col suo nome, la sua storia, i suoi desideri, le sue debolezze, i suoi sogni ed amori. I loro gesti che il crimine ha fermato per sempre. Chiedo perdono agli Innumerabili trasformati in numero ed alle Lucciole la cui luce è stata spenta dall’indifferenza di Bolsonaro per le loro vite. “E allora?”, ha detto il genocida, quando erano 5 mila morti per una “febbriciattola”.
Chiedo perdono per la vita spezzata dalla sete di morte di colui che ha detto, giovedì scorso, davanti all’approssimarsi di 100.000 brasiliani deceduti: “Andiamo avanti con la vita e troviamo un modo per liberarci da questo problema”. Chiedo perdono poiché Bolsonaro può essere presidente solo perché ci sono milioni di persone identiche a lui, che mostrano la stessa indifferenza per la vita dell’altro, camminando senza mascherina per farti morire asfissiato.
Chiedo perdono a coloro che sono stati sepolti in tombe senza nome. Chiedo perdono a coloro che sono stati sepolti in scatole di cartone perché mancava una bara. Chiedo perdono a coloro che hanno sofferto l’indecenza di iniziare a decomporsi in casa, perché non c’era un servizio pubblico per raccogliere i loro corpi, sottoponendo le persone care alla tortura di provare repulsione per l’odore di coloro che amavano. Io chiedo perdono a te, piccolo yanomani, che sei stato sepolto lontano dalla tua terra e dal tuo mondo, senza il lamento dei tuoi genitori, senza il saluto del tuo popolo e che pertanto non avrai pace né lascerai i vivi in pace.
Chiedo perdono a tutti quelli che non sono stati pianti sulla tomba, a coloro che sono stati sepolti da un becchino che non li conosceva, costringendo la vita de vivi al flagello del mancato addio e quindi alla non elaborazione del lutto. Chiedo perdono ai becchini sottoposti alla brutalità dello Stato. Chiedo perdono agli operatori sanitari che rischiano la vita giorno dopo giorno e vengono aggrediti per strada su istigazione del Presidente della Repubblica. Chiedo perdono al piccolo Xavante che, quando è morto, ha contagiato parte della sua gente che non aveva ricevuto nessuna guida per proteggersi da un altro virus. Chiedo scusa agli indigeni che, per vivere in città, si sono visti strappare la loro identità dallo stesso Stato che li ha espulsi dalle loro terre. Poiché le loro morti non vengono conteggiate per ciò che sono – indigene – vengono uccisi una seconda volta. Chiedo perdono per avere permesso che la gente sia trattata come una cosa e per aver reificato noi stessi, normalizzando lo sterminio.
Io chiedo perdono non perché senta una “colpa cristiana”, come sono già stata “accusata” in passato. Chiedo perdono perché sento una responsabilità collettiva, perché sono responsabile per quello che hanno fatto e per quel quello che fanno nel mio e nel tuo nome. Bolsonaro sta perpetrando un genocidio in nostro nome quando sostituisce un professionista sanitario competente in epidemie con un militare senza esperienza nella sanità. Sta perpetrando un genocidio in nostro nome quando distribuisce clorochina e idrossiclorichina persino alle popolazioni indigene, medicinali la cui inefficacia contro il covid-19 è già stata provata scientificamente, nonché i loro rischi. Sta perpetrando un genocidio in nostro nome quando blocca le risorse destinate ad affrontare la pandemia mentre negli ospedali mancano addirittura i sedativi per alleviare il dolore delle vittime. Sta perpetrando un genocidio in nostro nome quando proibisce che si adottino misure di sicurezza e incoraggia le persone ad andare in strada senza mascherine. È possibile continuare ad elencare altre azioni di Bolsonaro che dimostrano la sua intenzione di uccidere. E anche di lasciar morire, che è un altro modo di uccidere, poiché un governante ha la responsabilità costituzionale di proteggere la popolazione del paese che governa.
Io chiedo perdono. E affermo anche che, per quanto pochi, continueremo a resistere. I popoli che sono stati massacrati, come gli indigeni, stanno producendo le proprie statistiche e la propria memoria. É una maniera di riconoscere la vita di quelli che muoiono e restituirgli la dignità della verità nella morte. Di fronte ai crimini contro l’umanità, i necrologi hanno acquisito il significato della resistenza. Raccontare la storia e le storie è diventato un atto di ribellione – affinché i morti possano vivere come memoria e i loro assassini non sfuggano alla giustizia. Resistiamo [rac]contando i morti in più di un senso – come statistica affidabile, come identità riconosciuta, come storia raccontata. Ci ribelliamo trasformando i necrologi di coloro che sono stati uccisi in storie di vita, perché di fronte alle azioni ed alle omissioni di Bolsonaro e del suo Governo, morire di covid-19 non è una morte naturale per malattia, è una morte per omicidio volontario.
Noi, che siamo quelli che Bolsonaro ed il suo Governo non sono ancora riusciti ad uccidere, ricorderemo e faremo ricordare. E quando moriremo, i nostri figli ricorderanno. E quando i nostri figli moriranno, i nostri nipoti ricorderanno.
Caro Jair Bolsonaro, cari generali, cari civili coinvolti nei crimini contro l’umanità per il covid-19: io spero che sarete perseguitati dai 100.000 morti. Io spero che un giorno qualcuno faccia un film sulla marcia dei defunti a Brasilia, annunciando il ritorno nel nostro continente del realismo magico, poiché la realtà che ci avete imposto ci ha privato anche della possibilità della fantasia. Allora, guidati dal grande Aritana, che porterà tra le sue braccia i cadaveri senza sepoltura dei bambini yanomami, 100.000 indici additeranno i vostri volti. Potreste essere in grado, forse, di sfuggire ai tribunali. Non sfuggirete alla memoria.
[1] Quilombola è l’abitante di un Quilombo. Si tratta di insediamenti demografici che sotto diversi nomi si sono costituiti in molte aree dell’America latina durante il periodo coloniale per dare rifugio, principalmente ma non solo, agli schiavi africani ed ai loro discendenti fuggiti dai loro padroni. In Brasile, la costituzione del 1988 ha riconosciuto il diritto di proprietà della terra alle comunità Quilombolas e lo stanziamento di fondi da parte dello Stato per implementare dei progetti diretti a salvaguardare e valorizzare il patrimonio storico-culturale degli afrobrasiliani residenti in queste aree. [NdT]