
Il fotografo messicano Antonio Turok cattura l’abbattimento della statua di un generale coloniale spagnolo nel sud del Messico, un’azione portata avanti da quelli che pochi anni più tardi si presenteranno al mondo come Zapatisti.
di Gerardo Rayo, qui la versione originale in spagnolo
traduzione di Gianpaolo Contestabile
La base bianca della statua. Due uomini sopra di essa. Uno dei due spinge l’altro. L’uomo che spinge indossa una camicia bianca, leggermente malandata, di sicuro per il lavoro nelle campagne. Nella mano sinistra impugna una mazza sulla quale ora fa leva. La sua pelle è scura, morena, porta un cappello e la sua mano destra è totalmente distesa in un gesto di disprezzo e orgoglio nei confronti dell’altro uomo che sta spingendo. L’uomo che spinge è indio [1]. Intorno a lui molti altri indios guardano ciò che sta accadendo, la rabbia contro l’uomo che viene spinto proviene anche da tutti coloro che stanno assistendo alla scena. È giorno, il cielo è limpido. L’uomo che viene spinto è bianco, ha una barba prominente, indossa un’armatura di ferro, logorata dal tempo, conserva ancora il suo elmo e uno sguardo da cane orgoglioso. L’uomo bianco è ignaro del suo epilogo, sta per essere scagliato nel vuoto dagli indios, gli stessi che ha accusato di essere incivili ed eretici, con lingue e costumi che non erano e non sono opera di dio, perché per lui, dio è bianco. Quegli stessi indios, che ieri come oggi vivono nella miseria, sanno che su di lui ricadono molte responsabilità rispetto alla loro situazione attuale. La spinta dell’indio sulla base bianca rovescia finalmente quell’uomo bianco, al quale è stato reso omaggio come fosse un fatto tragico ma necessario.
L’indio, prima di spingere, ricorda tutti i torti che ha dovuto sopportare durante la sua vita. A cui si aggiungono i torti subiti dai suoi genitori, e dai genitori dei suoi genitori. Per questo non tentenna né mai si pentirà di questo istante. Concentra tutte le sue forze nella mano destra e getta l’uomo bianco nel vuoto. Sposta lo sguardo leggermente verso il basso e sul suo volto si disegna un sorriso.
II
Per gli europei il 12 ottobre del 1492 venne “scoperta” l’America. Questa ricostruzione continua a essere ripetuta anche oggi, perché è la base di un progetto civilizzatore costruito sull’oppressione, la violenza, il saccheggio e il razzismo, nonostante non abbia nessun fondamento storiografico. Lo storico Edmundo O’Gorman mette in evidenzia che non si scopre ciò che già esiste, ed è curioso che Colombo sia morto pensando di essere arrivato in India e non di aver “scoperto” un altro continente; in compenso però, dopo la sua morte, venne creata un’identità americana che fu attribuita a tutti quelli che avrebbero abitato quelle terre.[2]
Nonostante ciò, il 12 ottobre è ancora occasione di festa nello Stato Spagnolo. Si celebra l’“incontro dei due mondi”, un eufemismo utilizzato anche dagli storici latinoamericani che rimpiangono la monarchia e difendono l’Ispanità come un baluardo del “progresso”. Quest’incontro, in realtà, è ed è sempre stato l’imposizione violenta di un progetto civilizzatore, quello della modernità capitalista. La colonizzazione, il saccheggio dei popoli originari, le uccisioni, l’imposizione della religione cattolica e della lingua spagnola sono parte di questo processo.
Malgrado tutto ciò, fino a pochi anni fa, in Messico si continuava a celebrare il “giorno della razza”, un modo per ringraziare l’Impero Spagnolo per averci liberato dalla barbarie e migliorato per sempre la nostra vita, anche se durante questo processo alcuni indios vennero sterminati.
In fin dei conti, questo è il “costo della civilizzazione”.
Se ancora oggi si mantiene in vigore questa interpretazione rispetto alla conquista e alla colonizzazione del Mesomerica le ragioni vanno ricercate nel periodo successivo all’Indipendenza del Messico nel 1821, e durante il XIX e XX secolo, quando trionfò il modello di una nazione creola, del quale si sono nutrite le élite politiche ed economiche fino al giorno d’oggi.
Sono i discendenti delle famiglie creole quelli che oggi occupano spazio nella politica, che parlano in televisione, che recitano nei film, che producono intellettuali mediocri e volgari, che si esprimono sui quotidiani. Questo modello di nazione creola comprende due principi fondamentali: lo sviluppo capitalista (impossibile in un paese dipendente come il Messico) e il meticciato della popolazione.[3]
Né il primo né il secondo elemento si sono realizzati. Per il liberalismo messicano era ed è necessario eliminare i popoli indigeni, perché ai suoi occhi rappresentavano le caratteristiche di una società pre-capitalista, e quindi non direttamente sfruttabile a favore del capitale. Da lì viene la festa del 12 d’ottobre come celebrazione dell’élite e del suo progetto di nazione.
Questa celebrazione venne messa in discussione nel 1992 quando gli indigeni (zapatisti) marciarono e abbatterono la statua di Diego de Mazariegos, militare incaricato della conquista dell’attuale Messico meridionale. Nell’occasione dei 500 anni dalla “scoperta dell’America” gli indigeni rovesciarono un simbolo che continuava e continua a vivere tutt’oggi: quello del razzismo e della conquista. Il fotografo Antonio Turok riuscì a catturare il momento esatto in cui abbatterono la statua di fronte all’ex-Convento di Santo Domingo a San Cristobal de las Casas.
Il contesto: un decennio di apertura delle dogane al capitale multinazionale, privatizzazioni di imprese statali e para-statali, e a un anno dalla firma del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (TLCAN), l’abbandono definitivo delle campagne messicane e le riforme giuridiche per privatizzare la terra. L’entrata in vigore del TLCAN avvenne il 1° di gennaio del 1994, data in cui la notte si illuminò con l’insurrezione armata dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
III
La violenza poliziesca applicata contro l’afroamericano George Floyd ha innescato un’ondata di proteste contro il razzismo negli Stati Uniti. Quest’omicidio ampiamente documentato, invece che intimidire i manifestanti, ha generato mobilitazioni sempre più grandi, visibilizzando un razzismo che ha conseguenze estremamente violente.
Quest’omicidio, però, è tutt’altro che un’eccezione, al contrario rappresenta la norma. Sia per gli afroamericani che per le persone latine e migranti provenienti da paesi poveri che vivono negli Stati Uniti. Agli occhi dei loro concittadini bianchi e razzisti non fanno parte dello stesso paese a causa del colore della loro pelle, della loro cultura o della loro lingua materna.
Uniti ai fascisti del Ku Klux Klan e ai discorsi fascistoidi di Trump, questi immaginari riguardanti i migranti fanno sì che i pregiudizi influenzino la percezione della popolazione e funzionino come una pratica politica di discriminazione e violenza fisica e simbolica verso gli “altri”, quelli non bianchi, o bianchi ma non anglo-parlanti.
L’abbattimento delle statue, il loro oltraggio tramite vernice e oggetti collocati sopra di esse ironicamente, dimostrano che il razzismo, nelle nostre società colonizzate (al loro interno così come all’esterno) possiede delle radici storiche molto profonde.
L’ira scatenata dall’assassinio di una sola persona indica due cose. La prima è che la vita di qualsiasi essere umano è importante, e che il colore della pelle, lo stigma e il razzismo verso un determinato colore della pelle, oggigiorno non può continuare ad essere tollerato in nessun settore della società e in nessuna delle sue espressioni. Il razzismo, anche se sotto forma di scherzo, comporta delle conseguenze catastrofiche perché contribuisce a riprodurre le relazioni sociali dominanti di produzione.
In secondo luogo, dimostra che il riconoscimento dei diritti civili per gli statunitensi afroamericani, ottenuti attraverso le mobilitazioni nel corso del XX secolo, è ben lontano dall’aver disattivato le multiple sfaccettature del razzismo. Il riconoscimento di questi diritti rimane una conquista formale, ogni volta che non viene accompagnata da una trasformazione sostanziale del sistema economico che lo genera.
Il capitalismo e il razzismo, per noi, persone dalla pelle scura, sono la stessa cosa. Di conseguenza le misure e pratiche antirazziste sono urgenti, e rappresentano un lavoro di sensibilizzazione e denuncia imponente. Devono però essere intese anche come misure di transizione verso la trasformazione radicale del mondo capitalista. Senza questa prospettiva, si corre il rischio che intravedeva Fanon: l’oppresso ambisce ad occupare il posto dell’oppressore.
IV
Le statue, così come altri documenti, ci restituiscono una visione del mondo mediante un’interpretazione di classe. Quelli che le erigono lo fanno con la consapevolezza dell’uso politico che di esse se ne può fare. Quelli che le abbattono lo fanno con la piena coscienza di non voler perpetuare il lascito di ciò che venne trasformato in bronzo. Abbattere una statua o incendiare il passato non rappresentano un tentativo di rimuovere la storia, quanto invece uno sforzo per porre fine una volta e per sempre all’elogio di un progetto politico-economico che segrega, sottomette e lega mani e piedi agli oppressi. Soprattutto, mostra una riflessione critica sul passato e la consapevolezza che tale processo storico non può continuare a esistere così come lo ha fatto finora.
In questo senso è necessario eliminare tutti quei monumenti che venerano la nostra dominazione, che la riproducono in modo simbolico e ci obbligano a pensare che sia stato, e continua a essere, l’unico scenario possibile.
Fino a quando rimarrà in piedi un solo monumento a Leopoldo II di Belgio, a Hernán Cortés o alla monarchia ispanica, ovvero l’erede della monarchia del XVI secolo, sapremo che le cose per noi non sono cambiate più di tanto.
Così come dobbiamo porre fine a questi simboli di dominazione, dobbiamo anche attaccare l’attuale sistema di dominio, perché i dominatori del passato mantengono una stretta relazione con quelli di oggi. Allo stesso modo, gli oppressi di ieri mantengono una stretta relazione con noi. In questo modo, porre fine alla civilizzazione capitalista implica una resa dei conti con tutti quelli che hanno beneficiato dello sfruttamento del lavoro: i capitalisti.
V
In Messico, il progetto del liberalismo del diciannovesimo secolo, secondo cui bisognava costruire una nazione industriale “moderna” e capitalista, continua a essere vigente, ne sono una prova le grandi opere (il Tren Maya, il Corridoio Interoceanico del Istmo di Tehuantepec e il Progetto Integrale di Morelos) promosse negli ultimi decenni e che hanno trovato modo di concretizzarsi con l’attuale governo di Andrés Manuel López Obrador.
Questa trasformazione ha a che fare con il liberalismo e il suo modo di omologare la popolazione, che nel caso del Messico è avvenuto con la “leggenda del meticciato” che viene descritta e corroborata in modo esemplare da Federico Navarrete.[4]
L’ideologia del meticciato, come una combinazione fenotipica di vari e differenti colori della pelle, ha dato vita a una nazione di meticci, che parlano spagnolo e sono credenti cattolici, ovvero, sono messicani. Questa posizione è profondamente razzista perché non riconosce la diversità culturale e etnica delle comunità indigene, africane e asiatiche che sono parte del paese[5].
La tragedia del liberalismo è che dietro la sua manciata di idee apparentemente universali come l’uguaglianza e la libertà – che sono operanti solo per i proprietari – si nasconde un volto profondamente conservatore e perverso: la sottomissione della popolazione al dominio del capitale.
Per questo Lopez Obrador ha ragione quando empatizza con i liberali del XIX secolo, perché nel suo pensiero non trovano posto né i diversi né le forme di vita altre.
In questo contesto, dirigere il nostro sguardo verso il passato – che è presente ed è ancora qui – è un’esigenza per gli oppressi nella misura in cui cerchiamo e costruiamo alternative al mondo in cui viviamo. Incendiare il passato fa parte dell’affermazione della memoria, della tradizione di lotta, e del nuovo potenziale ordine degli oppressi.
[1] Nota di traduzione: Indio è una parola utilizzata per riferirsi alla popolazione originaria dell’ America Latina/Abya Yala in termini denigratori o comunque da un prospettiva coloniale che fa riferimento al periodo della conquista del continente da parte dell’Impero spagnolo e omologa tutte le popolazioni indigene sotto un’unica categoria entica/razziale. In questo testo il termine viene utilizzato consapevolmente dall’autore e rivendicato in quanto persona che vive sul proprio corpo lo stigma etnico/razziale.
[2] Edmundo O’Gorman, La invención de América. Investigación acerca de la estructura histórica del nuevo mundo y del sentido de su devenir, 3ª. ed., México, Fondo de Cultura Económica, 2006, p.193 .
[3] “Il meticciato non è mai stato in grado di indianizzare i bianchi, però è riuscito a bianchizzare gli indios, la sua definizione culturale non ha mai preteso che le èlites nazionali apprendessero le culture indigene, afro-messicane e altre, ma ha invece insegnato e imposto la cultura occidentale, che consideravano senza alcun dubbio superiore”, Federico Navarrete, México racista. Una denuncia, México, Grijalbo, 2016, pp. 112-113.
[4] “Secondo quello che ci hanno raccontato e continuano a raccontarci i nostri genitori, i nostri professori e troppi storici e intellettuali, siamo tutti meticci perchè discendiamo da una padre spagnolo conquistador, ovvero dall’implacabile e temuto Hernán Cortés, e da una madre indigena conquistata, la Malinche in persona, la sua bella però traditrice interprete nativa […] La leggenda dice che, successivamente, da questa difficile unione nacquero i meticci, una nuova categoria di esseri umani che possiederanno i migliori attributi delle due razze che li costituiscono”. Navarrete argomenta che le idee fondamentali sulle quali si fonda il “meticciato” non stanno assolutamente in piedi: non fu un processo biologico tra due “razze”, né culturale, né si realizzò solamente tra uomini bianchi e donne indias, né in Messico hanno convissuto unicamente indigeni e spagnoli, viene infatti così negata la presenza di persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. Inoltre, questo “meticciato” non cominciò con la conquista, ma solo a partire della seconda metà del XIX secolo. “Di fatti, i messicani chiamati meticci, non divennero la maggioranza della popolazione nazionale fino alla fine del XIX secolo nel Messico indipendente, invece che durante il periodo coloniale”. Si veda: Capitolo 5 “La leyenda del mestizaje” y Cap. 6 “Cinco tesis contra el mestizaje” en Federico Navarrete, México racista. Una denuncia, México, Grijalbo, 2016, p.189.
[5] “Quello che chiamiamo erroneamente meticciato non è stata la culminazione naturale di un processo lungo 300 anni, quanto invece un fenomeno radicalmente nuovo prodotto dalla modernizzazione capitalista e dalla consolidazione statale, che implicò il cambio della lingua, della cultura e dell’ideologia politica della maggioranza della popolazione, così come la definizione di una nuova identità nazionale. Fu un processo di confluenza politica, sociale, economica e culturale, però non razziale, una storia molto differente da quella che ci hanno raccontato” Ibid., p. 123.