di Guillermo Almeyra da La Jornada
Traduzione di Alice Fanti e Manuela Loi. Commento di Daniele Benzi
Il 22 settembre dello scorso anno, a 91 anni d’età, Guillermo Almeyra ci ha lasciati. Militante critico è il titolo della sua bella autobiografia. Ma anche cane sciolto. Marxista laico. Leninista democratico. Trotskista non settario. Ecosocialista. E naturalmente antistalinista e antiautoritario. Una vita di lotte senza concessioni, il sottotitolo. Ovunque. A fianco dei lavoratori senza mai dubitare della loro capacità di organizzazione e autogestione. Uomo integro. Libero. Che ha attraversato il ‘900 tutto d’un pezzo.
Chi lo ha conosciuto ne ricorda l’umiltà. Ma era un raffinato intellettuale. Io, che non ho avuto questo piacere, sono sempre stato affascinato da una scrittura capace di svelare con semplicità e senza narcisismo la conoscenza viva e vissuta delle cose di cui scriveva. Lo spessore umano. L’acutezza politica e lo spirito polemico. Coi compagni più intimi, il Subcomandante Marcos o Fidel Castro. Senza sconti a nessuno. Neanche a sé stesso. E guardando sempre dritto negli occhi.
Perché Guillermo Almeyra sapeva un sacco di cose e aveva vissuto in un sacco di posti. Fra cui l’Italia. I militanti più anziani se lo ricordano. Nella sua autobiografia racconta anche questa esperienza. Certo, sarebbe bello se qualche casa editrice coraggiosa decidesse di tradurla. Una testimonianza d’eccezione sul ‘900 latinoamericano e sull’internazionalismo rivoluzionario scritta per le nuove generazioni da un testimone veramente eccezionale.
Su l’America latina oggi lo ricordiamo pubblicando l’ultimo articolo uscito su La Jornada, quando le sue condizioni di salute erano già estremamente delicate. Un bilancio lucido e asciutto. Ottimista come solo gli imbecilli e i veri rivoluzionari di questi tempi possono esserlo. Sereno come solo gli esseri liberi lo sono davanti alla morte. Guillermo ci lascia un messaggio di speranza. E la memoria di una vita esemplare che, forse, ci aiuterà a non perderla. [Daniele Benzi]

Mercoledì scorso sono caduto e mi sono rotto la testa del femore della gamba destra. I medici hanno da subito paventato la possibilità di operarmi e di mettermi una protesi artificiale. Purtroppo, mi è venuta una crisi respiratoria che li ha fatti desistere, dal momento che avrei potuto morire sotto i ferri.
I dottori della rianimazione dell’ospedale di Marsiglia, il Timone, hanno rianalizzato la mia situazione complessiva e hanno valutato che probabilmente non arriverò alla fine di questa settimana e che, se anche dovesse accadere questo miracolo, solo dopo potrebbero considerare l’ipotesi di un’operazione. In una riunione di famiglia con la mia compagna da 60 anni, che è stata con me in tutte le situazioni rischiose, e con mio figlio, un giovane ecologista e anticapitalista, molto lucido nelle idee e nelle scelte, abbiamo deciso di basarci sulle stime dei medici. Superare il fine settimana e aspettare un miglioramento dei miei polmoni: questa potrebbe essere, di conseguenza, la mia ultima battaglia.
Nel 1943 ho iniziato la militanza socialista, nonostante frequentassi un liceo militare. Rifarei tutto quello che ho fatto e ripeterei tutto quello che ho detto da allora – a parte alcune stupidaggini che ho commesso tra il 1962 e il 1974, anni della mia espulsione dal trotskismo “posadista”[1] per divergenze politiche che condividevo anche con la mia compagna.
Ho lottato in quattro continenti, militato in partiti e creato riviste e giornali politici in sei nazioni; sono stato espulso da vari paesi a causa della mia attività rivoluzionaria. Quando sono tornato legalmente in Messico, da dove ero stato espulso durante la presidenza di Gustavo Díaz Ordaz, ho lavorato nel dipartimento di studi postlaurea della Facoltà di Scienze Politiche e Sociali della UNAM, ricoprendo il ruolo di coordinatore del corso in studi latinoamericani e ho collaborato con il giornale Uno Más Uno, diretto allora da Manuel Becerra Acosta. Quando Carlos Payán Velver e Carmen Lira Saade, tra gli altri, hanno creato La Jornada, ho lavorato in questa redazione e nel corso postlaurea in sviluppo rurale integrato della UAM Xochimilco.
Nello stesso periodo, ho fondato, insieme ad altri, alcuni master in scienze sociali all’Università Nazionale Autonoma del Guerrero e, sempre con altri, ho strutturato il corso di storia e sociologia per la UACM. Ho scritto o collaborato alla stesura di una cinquantina di libri. Ho avuto un figlio e ho piantato alberi in Messico e Nicaragua. Ho avuto l’onore di lasciare un minuscolo segno nei movimenti operai di Argentina, Brasile, Perù, Italia, Messico e nella Repubblica Socialista Araba dello Yemen del Sud.
I miei articoli de La Jornada sono riprodotti da diversi media europei e latinoamericani. Sin dall’adolescenza, difendo i lavoratori e il popolo, le risorse naturali, la relazione civile e pacifica tra le nazioni e la lotta per la democrazia, che implica affrontare lo Stato burocratico del capitalismo di Stato o del grande capitale finanziario e industriale. Di rivoluzionari ce ne sono tanti, ma pochi si propongono l’eliminazione del sistema di sfruttamento; nonostante nei partititi comunisti, soprattutto nei decenni ‘30 e ‘40, abbiano militato persone abnegate e di enorme valore, le linee politiche e il funzionamento delle loro direzioni hanno perpetuato il sistema capitalista, sia su scala nazionale che mondiale. Ho criticato quelle direzioni e quelle politiche staliniste che sono sopravvissute in governi e partiti che non erano stalinisti.
Discuto con franchezza e non ho paura di finire in minoranza, ma allo stesso tempo cerco di riunire i rivoluzionari anticapitalisti di tutte le tendenze con quelli della mia corrente e con i marxisti ecosocialisti rivoluzionari.
Come ho detto in alcuni dei miei libri, sono copernicano, newtoniano, darwinista, marxista, leninista, trotskista, ma in modo laico e senza abbandonare la critica agli errori dei maestri.
Nonostante tutto ciò e nonostante il terribile pericolo che stiamo vivendo su scala mondiale di una distruzione ecologica delle basi della civiltà e di una guerra nucleare che farebbe tornare il mondo all’età della pietra, sono convinto che l’umanità avrà un futuro migliore e che ci sia la possibilità di assicurare a tutti lavoro, educazione, salute, un ambiente sano, cibo e acqua di qualità, diritti democratici, sicurezza e rispetto per le donne e la fine di tutte le discriminazioni.
Se non dovessi vincere questa difficile battaglia che sto conducendo, che questi testimoni passino a chi mi segue nella corsa. Viva i lavoratori messicani! Viva l’internazionalismo proletario! Uniamoci tutti e costruiamo un’alternativa al capitalismo!
[1] Corrente di pensiero che prende il nome da J. Posadas (Argentina 1912 – Roma 1981), all’anagrafe Homero Rómulo Cristali Frasnelli, leggendario dirigente trotskista argentino e della IV Internazionale in America Latina, noto per le sue idee eccentriche e la visione ideologica detta appunto posadismo. [NdT]