Equador: dopo 18 giorni di proteste e manifestazioni i movimenti indigeni trovano un accordo con il governo

Il Paro Nacional convocato dalle organizzazioni indigene contro le politiche neoliberiste del governo di Guillermo Lasso si è concluso giovedì scorso con un accordo: “In caso di mancato rispetto da parte del governo, torneremo a milioni e la resistenza sarà più forte e determinata” promettono i leader.

Articolo e foto di Giulia Cillerai

Per 18 giorni l’Ecuador è rimasto bloccato; centinaia di manifestazioni molto partecipate in tutto il paese, blocchi stradali che ne hanno paralizzato la produzione e il commercio, scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti avvenuti su tutto il territorio nazionale. Lo sciopero a tempo indefinito chiamato dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene (CONAIE) ha visto una partecipazione massiva in numerosissime città e pueblos, non soltanto da parte delle comunità indigene e campesinas, ma anche da tutte le categorie di lavoratori, studenti e disoccupati che negli ultimi anni hanno visto aumentare enormemente il prezzo della canasta basica e si trovano con i conti sempre in rosso. Il governo si è visto obbligato a iniziare un dialogo, e dopo vari giorni di inutili tentativi sono riusciti ad arrivare ad un accordo con i rappresentanti delle organizzazioni indigene, firmato la sera di giovedì 30 giugno. Il governo si compromette a rispettare 7 dei 10 punti proposti dalla CONAIE e si riserva 90 giorni per creare un tavolo tecnico, analizzare e promuovere soluzioni conformemente ai punti restanti. In cambio, si sospendono le mobilitazioni e i blocchi stradali nel Paese.

Le organizzazioni indigene promettono di rimanere attente e di essere pronte a ricominciare la resistenza con più forza e determinazione nel caso il governo non rispetti la parola data.

Il bilancio alla conclusione dello sciopero nazionale è pesante: secondo l’Alleanza delle Organizzazioni per I Diritti Umani, dopo 18 giorni di mobilitazioni si contano 5 morti, tutti uccisi dalla polizia durante le manifestazioni, e almeno 335 feriti tra i manifestanti, tra cui numerosi in condizioni gravi. La repressione poliziesca e militare è stata molto forte; le forze dell’ordine hanno utilizzato gas lacrimogeni, bombe stordenti, proiettili di gomma e granate esplodenti. Armi non letali, in teoria, ma che di fatto hanno provocato morti e feriti in tutto il paese. I manifestanti si sono protetti con scudi di fortuna fatti con cartelli stradali, legno, cartone. Hanno costruito barricate di sassi e mattoni per proteggersi dai proiettili lanciati dalla polizia, e hanno improvvisato fuochi in mezzo alla strada con copertoni e ramaglia; il fumo aiuta a resistere contro i gas lacrimogeni. Negli ultimi giorni della protesta, tuttavia, la repressione si è intensificata e il governo ha dato il via libera alle forze dell’ordine di utilizzare “l’uso progressivo della forza”. Questo decreto, approvata proprio pochi giorni prima dell’inizio del paro, dava maggiori poteri a militari e polizia. In altre parole, il presidente Lasso ha dato pubblicamente la libertà di sparare sui manifestanti.

La Procura parla di 162 detenzioni, e di oltre 300 indagini aperte. Qualcuno parla anche di vari desaparecidos, ma le informazioni sono confuse. Molti media indipendenti hanno dichiarano di aver subito censura rispetto alle informazioni sul paro, e denunciano che il governo abbia utilizzato strumenti per bloccare il traffico dei dati, limitare e controllare le informazioni. I mezzi di informazioni ufficiali non davano informazioni reali, e la gente si informava attraverso i social media come Twitter, Facebook, Instagram e TikTok.

Il governo annuncia che il paese ha perso almeno 50 milioni di dollari al giorno solo nel settore produttivo e che lo sciopero ha più che dimezzato la produzione di petrolio nazionale, con perdite enormi nel settore estrattivo. Le comunità indigene e colone nell’Amazzonia ecuadoriana, infatti, hanno bloccato le strade e obbligato i lavoratori delle compagnie a chiudere più di mille pozzi petroliferi, causando perdite per milioni di dollari al giorno. La lotta dei popoli dell’Amazzonia è stata tra le più forti durante lo sciopero: stanchi di 50 anni di politiche estrattive che hanno causato un’enorme devastazione ambientale proprio nella foresta primaria, e un aumento spropositato di malattie e problematiche legate alla contaminazione (cancro, leucemia, aborti spontanei, malformazioni, ecc), hanno preteso la deroga del decreto 95 che prevede l’aumento della produzione petrolifera.

La polizia denuncia che si sono verificati almeno 5251 fatti considerati illeciti, tra cui blocchi stradali, interruzioni di servizio pubblico, danni a beni pubblici e privati. Dichiarano che durante le mobilitazioni nazionali sono state distrutte 10 stazioni della polizia, e 117 veicoli tra moto e auto della polizia sono state danneggiate. 20 i mezzi militari distrutti. Risulterebbero feriti 238 poliziotti e 106 militari. 37 poliziotti sarebbero stati sequestrati dai manifestanti durante le varie manifestazioni, ma sono sempre stati liberati qualche giorno dopo senza aver subito violenze. Un soldato è morto durante gli scontri avvenuti a Shushufindi, nell’Amazzonia ecuadoriana, quando un convoglio militare che stava accompagnando un camion per il trasporto del greggio ha attaccato i manifestanti che bloccavano la strada. I manifestanti dichiarano che il morto è stato vittima dello stesso fuoco sparato dal convoglio militare.

Un riassunto dei 18 giorni di mobilitazioni

Lo sciopero generale è iniziato il 13 giugno, convocato dall’organizzazione indigena maggioritaria, la CONAIE, a cui hanno immediatamente aderito le altre principali organizzazioni indigene del paese, quali la CONFENIAE, la FEINE (el Consejo de Pueblos y Organizaciones Indígenas) e la FENOCÍN (la Confederación Nacional de Organizaciones Campesinas Indígenas y Negras).

L’Ecuador è uno stato plurinazionale: comprende 14 nazionalità indigene e 18 popolazioni ancestrali con lingue e culture diverse. Sono più di un milione gli indigeni che si identificano parte delle comunità ancestrali su una popolazione di 17 milioni.

La forza delle organizzazioni indigene in Ecuador è molto importante, i legami comunitari ancora presenti. L’adesione allo sciopero è stata enorme.

Dieci sono i punti rivendicati dalla CONAIE, tra cui vi sono l’opposizione alle politiche neoliberiste del governo decise con l’FMI che vogliono tagliare i fondi all’educazione e alla sanità, privatizzare i beni pubblici, tagliare i sussidi ad alcuni prodotti con prezzo calmierato (come la benzina), aumentare la produzione e lo sfruttamento petrolifero e minerario. Tutto questo ha portato alla sollevazione popolare che ha travolto il paese per quasi 20 giorni.

Dopo una settimana di mobilitazioni nei territori, lunedì 20 migliaia di persone provenienti da centinaia di comunità indigene sono arrivate alla capitale, scontrandosi diverse volte con le forze dell’ordine che hanno cercato di impedire il loro ingresso in città. Enorme l’accoglienza e la grande solidarietà dai quartieri popolari del sud, che scendevano in strada per regalare loro cibo e vettovaglie.

Per 10 giorni il centro di Quito è rimasto totalmente paralizzato. Migliaia di manifestanti provenienti da ogni regione del paese sono scesi in piazza tutti i giorni, prima nel tentativo di riconquistare la Casa della Cultura e il parco dell’Arbolito, simboli dell’organizzazione indigena in città, e poi di muoversi verso la sede dell’Assemblea Nazionale e del palazzo del governo. La polizia ha bombardato con gas lacrimogeni le università e i luoghi di pernottamento dei manifestanti indigeni, nonostante la presenza di centinaia di bambini e anziani. I manifestanti denunciano che le forze dell’ordine hanno sparato colpi da arma da fuoco almeno in due occasioni senza pretesto, ferendo un signore che stava mangiando davanti all’università centrale e colpendo una donna al braccio che stava trasportando materiale da soccorso su un furgone. Nel tentativo di bloccare le manifestazioni, il presidente Lasso ha emesso tre decreti di “stato di eccezione” – derogati qualche giorno dopo – prima coinvolgendo tre province, e poi allargando a nove i territori toccati. Lo stato di eccezione prevedeva un aumento dei poteri dell’esercito e della polizia, e il divieto di raggruppamento che, abbinato al coprifuoco imposto dalle 22 alle 5 del mattino, cercava inutilmente di sedare le proteste.

Le rivendicazioni della CONAIE e l’accordo con il governo di Lasso

Dei 10 punti proposti dalla confederazione dei popoli indigeni, 7 sono stati discussi nell’accordo con il governo, ma non risolti del tutto. I punti restanti dovranno essere analizzati nel prossimi tre mesi, con la creazione di un tavolo tecnico ad hoc e la prosecuzione del dialogo tra il governo e i rappresentanti della CONAIE, FEI e FENOCIN. Per il momento l’accordo prevede: la riduzione di 15 centesimi del prezzo dei carburanti (nonostante la richiesta fosse di ridurla di 40 cents); il rifinanziamento dei debiti del settore agricolo e produttivo fino a 100mila dollari, la diminuzione dei tassi d’interesse per certi tipi di prestiti e il condono dei prestiti fino a 3mila dollari. Si rafforzano i meccanismi di controllo dei prezzi dei prodotti basici, per garantire un guadagno minimo a contadini e allevatori ed evitare speculazioni; viene dichiarato in Emergenza il sistema di salute pubblica, per inviare immediatamente medicine e aiuti economici agli ospedali e ai centri di salute. Viene derogato il decreto 95 che prevedeva l’ampliamento della frontiera petrolifera, per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni; viene riformato il decreto 151, che promuoveva l’aumento dello sfruttamento minerario, e nello specifico viene garantito il diritto alla consulta previa, libera e informata per ogni comunità, e vietato lo sfruttamento minerario nei territori ancestrali, in aree protette o archeologiche e in zone di riserve idriche. Il governo deroga anche lo stato di eccezione approvato negli ultimi giorni di mobilitazione nelle province amazzoniche. Mancano ancora molti punti da discutere, come il rispetto dei diritti collettivi, per esempio l’educazione bilingue e la giustizia indigena; la non privatizzazione dei settori strategici, come quella del Banco del Pacífico che il presidente Lasso sta attualmente cercando di vendere; un bilancio dignitoso per la sanità e l’istruzione; la creazione di politiche di sicurezza pubblica. Il governo avrà 90 giorni per dare risposte concrete su questi ultimi punti.

Questa lista di richiesta era stata presentata ormai un anno fa dalla CONAIE al governo, ma su di essa non era mai stata data alcuna risposta né aperto un dialogo.

L’instabile equilibrio politico del governo

L’equilibrio politico è molto fragile e il presidente Lasso si è ritrovato quasi senza appoggio in parlamento. Lasso, imprenditore e banchiere, tra i più importanti azionisti del banco di Guayaquil, uno dei responsabili principali della dollarizzazione dell’Ecuador nel 2000 e accusato di frode nei Pandora Papers, non è sicuramente tra i presidenti più amati. Dopo poco più di un anno di presidenza il Paese ha rivissuto un momento di sollevazione popolare contro le politiche neoliberali simile a quello del 2019, e sono in molti a voler vedere cadere il governo. Sabato 25 nella seduta dell’Assemblea Nazionale, il blocco di opposizione della UNES (forza politica dell’ex presidente progressista Rafael Correa, ora esiliato in seguito ad accuse di corruzione, NdT) infatti ha proposto la destituzione del presidente per “gravi problemi interni”. Nella votazione di martedì, la petizione non è passata per una manciata di voti (84/92). Se fosse stata approvata, il Paese sarebbe andato ad elezioni anticipate.

I movimenti indigeni hanno una lunga tradizione nel far cadere presidenti: queste “discese” su Quito per rivendicare i propri diritti, che spesso finivano con il pretendere le dimissioni del presidente di turno, erano usuali prima dell’arrivo al potere di Correa, nel 2007.

Anche nel Paro Nacional del 2019 molti manifestanti volevano la caduta del presidente Lenin Moreno, accusato di non fare gli interessi del popolo ecuadoriano; in quel caso l’esigenza del movimento indigeno era di abbassare il prezzo della benzina, aumentato esponenzialmente dall’abolizione dei sussidi pubblici voluta dall’FMI. Ma anche il quell’occasione il paro si concluse con un accordo tra la CONAIE e il governo, creando, inoltre, non poco malcontento tra le basi dell’organizzazione.

Vedremo come agirà il governo nei prossimi tre mesi. Decine di migliaia di persone sono scese in strada in tutto il territorio nazionale per 18 giorni, decise a manifestare fino alle “ultime conseguenze”. E in molti non sono contenti dei risultati ottenuti. Se il tavolo tecnico creato non darà le risposte attese in 90 giorni, lo sciopero ricomincerà con più forza e determinazione; questa volta le organizzazioni indigene non accetteranno un dialogo, ma probabilmente protesteranno fino a pretendere la caduta del governo di Lasso.

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