Recensione | Roberto Burgos Cantor, Lo Amador

(Roma, Le Commari, 2022, 135 pp. ISBN 978-88-946672-1-9)

 
di Simone Ferrari, da Altre Modernità

Pubblicata nel 2022 per la collana Hierbas de Azotea de Le Commari edizioni, la traduzione italiana di Lo Amador è il risultato di un complesso esercizio di interpretazione e ricerca tra le concavità della parola letteraria sperimentale di Roberto Burgos Cantor (1948-2018), scrittore colombiano, riconosciuto internazionalmente con il Premio de Narrativa José María Arguedas (2009) e il Premio Nacional de Novela de Colombia (2018).

È stato un gruppo di lavoro bilingue e composto da sette specialisti –tra cui Alejandro Burgos Bernal, uno dei figli dell’autore[1]– ad assumersi l’incarico di tradurre per la prima volta all’italiano un testo di Borges Cantor. Un’operazione delicata, dove la necessità di “interrogare la lingua per mettere in scena il parlare” (124) segnalata dagli stessi traduttori ha saputo aprirsi abilmente alle peculiari esigenze estetiche di una scrittura sintatticamente anarchica, capace di creare uno spazio di convivenza dialogica tra veraci voci popolari e passaggi ad alta densità di astrazione.

Pubblicato per la prima volta nel 1981, Lo Amador è l’opera inaugurale dell’ampia produzione letteraria di Burgos Cantor, romanziere, autore di racconti e giornalista, ascrivibile alla fuggevole epoca del post-boom latinoamericano. Lo Amador è anche il nome di un quartiere periferico di Cartagena de Indias, luogo natale dell’autore, che nello spazio sociale dei sobborghi della città caraibica ambienta tutti i sette racconti che compongono l’opera.

In una narrativa radicalmente immersa nelle geografie culturali e linguistiche della Colombia atlantica, Lo Amador assurge a personaggio centrale del testo: “il vero protagonista dell’intero libro è il quartiere” (11), segnala la poetessa e traduttrice uruguaiana Martha Canfield nell’appassionata prefazione alla versione italiana dell’opera. In effetti, i personaggi che intervengono nei sette racconti –musicisti, reginette, operai, prostitute, pugili, marinai, sindacalisti– sembrano pervasi da una riflessiva rassegnazione al destino comune degli abitanti de Lo Amador: i pochi passi che li separano dai cammini iconici del centro storico sono in realtà una muraglia immaginaria invalicabile, che li costringe a ‘dare le spalle’ ai fasti della Cartagena da cartolina.

Esclusi da una stratificazione sociale che trasforma Lo Amador in un micromondo macondiano, in cui tutto avviene nelle regole dello spazio e del tempo del quartiere, i personaggi faticano a trovare voci e diritto di esistenza in un non-luogo dove “i bambini muoiono di vermi, le donne di tristezza e gli uomini di paura” (54). Così, non sono le azioni dei protagonisti dei racconti a scandire la narrazione, quanto piuttosto le loro relazioni con luoghi e tempi che accadono: “accadeva quell’alba umida” (71) è l’incipit del quarto racconto, Queste frasi d’amore che si ripetono tanto, dove il protagonista José Raquel, scaricatore di molo, viene incarcerato e poi ucciso per la sua attività sindacale.

Tuttavia, non è obiettivo dell’opera di Burgos Cantor mettere in scena la miseria: il testo sceglie di cavalcare, liminalmente, i complessi interstizi della non-speranza urbana. Nell’alternarsi delle vicende e dei personaggi –alcuni di essi ricorrenti nei diversi racconti – le radio dei taxi, dei bar e delle residenze sono sempre accese, alternando canzoni popolari a tragiche notizie di cronaca. La musica de Lo Amador sopperisce così alle parole mancate dei personaggi, in bilico tra una negazione esistenziale di sé stessi –“questo non era un quartiere né era niente un desiderio di rimanere vivi” (89)– e l’istinto immaginativo di universi alternativi: “due che si tengono per mano inventando un mondo e che sempre si spezzano il cuore” (78).

Oltre che dalla musica, l’inquietante silenzio in cui si troncano le conversazioni dei personaggi è colmato da turbolenti monologhi interiori che, liberati dal giogo delle norme sintattiche, arrivano a disegnare interi archi narrativi senza alcun segno di interpunzione, come nel caso di In questo stretto angolo della terra, ultimo dei sette racconti, in cui la punteggiatura è convocata solo nella delicata critica sociale della pagina conclusiva: “Ogni volta che ci sono le elezioni i morti scostano la terra, i vermi, l’oblio e con un fiore marcio e una carta d’identità ammuffita vanno a votare” (121).

Tra partite di domino, lotterie e cieli da inventare, le staccionate di lamiera di Lo Amador divengono così nido di protesta silente e di ambizioni fulvide, poi ridicolizzate dai dolori del quartiere. I campioni locali di baseball, come “Yuya” Rodríguez, gli autori dei classici del porro, della charanga, del son e delle altre musiche tradizionali caraibiche, pugili afrodiscendenti come Kid Chocolate si trasformano nelle uniche icone viventi de Lo Amador, dove le individualità si costituiscono esclusivamente di ciò che non possiedono. L’amara tragicità dalla dimenticanza diviene così il destino ineluttabile di chi, osservando la vita senza viverla, non permane nei ricordi ma negli oblii, come nel caso di Onissa, la prostituta protagonista del racconto I misteri gaudiosi: “nel quartiere ancora la nominano: strega, puttana o santa, dipende da chi la dimentica” (106).


[1] Gli altri traduttori dell’edizione italiana di Lo Amador sono: Leonardo Archila, Jineth Ardila Ariza, Simona Donato, Marino Galdiero, Paolo Patti e Maria Corona Squitieri.

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