Giovedì 4 maggio 2017 alle ore 21.30, presso il Molo di Lilith, in via Cigliano 7 a Torino, verrà presentata Comincia adesso. Fughe ed evasioni quotidiane (Eris Edizioni, 2016), una raccolta di racconti illustrati che ha coinvolto più di trenta autori e autrici, chiamati a immaginare e raccontare l’atto liberatorio che accompagna la fuga. Parte del ricavato delle vendite di questo libro andrà a sostenere il lavoro della Biblioteca Popolare Rebeldies, una realtà che da diversi anni si occupa di far entrare i libri in carcere e garantire il libero accesso alla lettura dei detenuti e delle detenute.
Al Molo di Lilith sarà presente per l’occassione la banda di Eris Edizioni – sempre più riconosciuta per la serietà e la cura che dedica ai suoi progetti editoriali; l’autore di uno dei 16 racconti inclusi nella raccolta, l’eclettico Filippo Sottile – scrittore, cantastorie, attore, musicista, organizzatore culturale, e molte altre cose belle – e il curatore della raccolta Simone Scaffidi.
Hanno contribuito a plasmare Comincia Adesso: VERONICA PACINI, ALICE SOCAL, LORENZO IERVOLINO, MARCO MARTZ, MARILÙ OLIVA, LUIGI FILIPPELLI, FILIPPO SOTTILE, DANIELE LA PLACA, CLELIA BETTINI, ROCCO LOMBARDI, ANDREA STAID, GIANLUCA COSTANTINI, DEBORAH SANNIA LA TRAM, CLAUDIO MORANDINI, HURRICANE IVAN, LUCA GALLO, VALENTINA ADDABBO, ALBERTO PRUNETTI NICOLA GOBBI, SLAVINA LUCIA BIAGI, MARCO CAPOCCETTI BOCCIA SILVICIUS, FILIPPO CASACCIA CLAUDIO CALIA, PAOLO PASI, FRANCESCO FRONGIA, FABRIZIO LORUSSO, CRISTINA PORTOLANO, SIMONE TORINO, ARMIN BARDUCCI. La copertina è opera di SONNY PARTIPLO, il cui contributo, al pari di quello di ANNA MATILDE SALI e GABRIELE MUNAFÒ è stato essenziale per la realizzazione del libro.

Quello che segue è un estratto dal racconto:
Complici
di Deborah Sannia
Non c’è vita senza collettività, è cosa
risaputa: qui ne hai la controprova,
non c’è vita senza lo specchio degli altri
l’università di rebibbia,
Goliarda Sapienza.
Maionese dappertutto. Sul mento, sul tavolo, nelle dita che mi metto a leccare. Non riesco a mordere bene perché mi viene da ridere, mi viene da essere felice, guardando Chicchi negli occhi. Come nei giorni dei nostri compleanni. Un panino con la cotoletta, pomodoro, maionese e un po’ di insalatina. Mangiavo come dopo una giornata di lavoro, come dopo una corsa, una fuga. Dopo una vittoria. Finalmente il mio corpo tornava a essere come volevo e mi regalava una fame sincera senza esitazione.
C’è un bar bellissimo dietro l’ospedale, un po’ forno un po’ bar.
Il dottore ha detto che bisogna aspettare per mangiare. Andiamo dirette a casa?
C’ho troppa fame, chi se ne frega!
Chicchi mi guardava sogghignando, conoscendo bene le mie passioni per le regole. E anche la mia ipocondria cronica. Regole, le mie e quelle combattute. Un’anarchica disciplinata, diceva Chicchi. Ma tra la fermata dell’autobus e il freddo di gennaio pensavo solo a me. Uscita dall’ospedale consacravo la fuga da una casualità che pretendeva la mia ferma determinazione.
Il cellulare di Chicchi suonava, io pensavo di ordinare le patatine fritte e lei commentava con un freghete e poi rispondeva.
Sta benissimo… Sì, puoi venire. Se ti aveva detto che potevi apparire subito dopo, vieni tranquillo. Anzi, guarda, vieni sicuro che se aveva messo in conto di vederti è meglio che accada… Ciao ciao.
Io ridevo e quasi mi affogavo. Adoravo come Chicchi mi prendeva in giro. Soprattutto quando tendeva un po’ a decostruirmi. Ora mi sembrava di apprezzarlo ancora di più. Libera. Un pochino alla volta perdevo pezzi di gabbie interiori, e un bel po’ di sangue.
Benni arrivava, con le guance arrossate dal freddo e un’impeccabile toppa dei Wretched. L’andatura fiera si sgretolava all’incrociarsi dei nostri sguardi. Chissà che gli frullava per la testa. Non so se gli sarà venuto spontaneo o se si era preparato a casa o se peggio Chicchi gli avesse fatto un discorso di ore su cosa fare o cosa evitare, ma se la cavò degnamente. In un misto di preoccupazione e imbarazzo, di tenerezza e sollievo, arrivò con un bacio per il mio caschetto e dei fiori di un bellissimo condominio in via Alberti.
Non so cosa si fa in queste situazioni. Ho pensato che i fiori vanno sempre bene.
Ecco, io e Benni non è che fossimo fidanzati o cose così. Una sera qualsiasi avevamo iniziato a scopare. All’inizio, o meglio subito dopo il nostro inizio, mi sentivo un po’ a disagio. Benni non rientrava in nessun format. Benni non era solo un amico e neanche solo un amante. Ci trovavamo nelle milioni di cose che riuscivamo a fare tra un weekend e l’altro. Eravamo senza volerlo sempre negli stessi luoghi. Neanche ci chiamavamo, ci trovavamo, e spesso finivamo a fare l’amore un po’ a caso, nei parcheggi senza macchina, nel cantiere dietro via Fioravanti, o nelle nostre stanze a contratto concordato, o dove si accartocciavano le nostre bici.
Non era sicuramente da me avere le idee poco chiare su come e dove incasellare una relazione.
Ma a me piaceva?
Avevo bisogno di certe regole. Anche fuori le relazioni. I lavori, la militanza, i divertimenti, gli impegni, le droghe, le riviste. La giusta consapevolezza. Ordine. E guai a fare male.
Perché sei così severa con te stessa?
Diceva Chicchi, spesso.
Ossessioni, consapevolezza e sicurezza.
Intransigente. Sottogruppo contraccezione. Il mio collettivo provava a farne tante, tra amori sdolcinati e anomali, tra lavori e lavori e ancora lavori, qualche esame all’università, e voglia di dire. Ogni tanto urlare. Era il periodo di come sensibilizzare su una contraccezione non invasiva e che fosse comprensibile a chi di consultori e affini non avesse mai sentito parlare. Stampavi opuscoli, gli incontri con i collettivi di studentesse, tante chiacchiere e scontri, a volte. Superficialità: non ammessa. Io dicevo tra a me e me che basta sapere come si fa e mica rimani incasinata. Convintissima che bastava davvero essere informata e avere un po’ di consapevolezza. Dura.
A me non capiterà mai, so come si fa. È tutto sotto controllo.
Ho sempre fatto tutto come si deve, e se non doveva andare come dicevo io non si faceva. A me no, io sapevo quel che c’era da fare e non fare. Insomma, un’arrogante del cazzo.
1) Avere le idee chiare
Due lineette. Come nei film e nelle pubblicità. Niente di più. A come avrei affrontato un aborto non ci avevo mai pensato, perché mi dicevo che tanto non ci sarei arrivata. Sì, magari una pillola del giorno dopo per qualche sfiga, ma basta. Eppure di aborto ne parlavo in continuazione. Il collettivo, le donne con cui avevo relazioni di vario genere, all’università, nei miei lavori, a casa. Ero quella a cui bene o male si chiedeva un consiglio. Volantini, storie di vita, letture, preparazione. Ma mi resi conto che non sapevo cosa fare. Cosa si fa? Con chi devo parlare? Come si dice che sei incinta?
Cazzo sono incinta.