A sei mesi dall’uscita del numero 46 della rivista di storia della conflittualità sociale Zapruder, vi proponiamo l’introduzione all’intero numero intitolato “Block the box. Logistica, flussi, conflitti” e il contributo del nostro redattore Pérez Gallo con una recensione multipla al libro di Deborah Cowen The Deadly Life of Logistics e a un paio di saggi del sociologo uruguaiano Alfredo Falero.
Block the box. Logistica, flussi, conflitti
Nel momento in cui, dopo decenni, la “globalizzazione” del comando capitalistico attraversa un processo di ristrutturazione profondo, è necessario individuare nuovi punti di vista, nuove strategie e riferimenti per indagare le mutazioni che contrassegnano il nostro presente. Questo numero di «Zapruder» adotta gli “occhi della logistica” per muoversi in questa direzione, focalizzando l’attenzione sul dibattito critico riguardo a flussi, confini, infrastrutture e conflitti che costellano lo scenario planetario, tra circolazione delle merci, trasformazione del lavoro, nuove spazialità e inedite configurazioni temporali. Si parla dunque di vecchie e nuove Vie della seta così come dell’avveniristica Hyperloop per viaggi di terra a mille chilometri orari, di rider delle piattaforme digitali così come di processi di sciopero nella megalopoli padana dell’ultimo decennio. Si ascoltano le voci di studios* che adottano il paradigma logistico per interpretare le trasformazioni dei sistemi produttivi e dei modelli migratori, così come si parla di una chiave genealogica per leggere le mutazioni capitalistiche e l’emergere di nuove soggettività.
Un caleidoscopio di tracce per provare a interpretare il nostro tempo… in vista di una sua trasformazione.
Recensione multipla
di Pérez Gallo
Deborah Cowen, The Deadly Life of Logistics: Mapping Violence in Global Trade, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2014, pp. 238, euro 27,85.
Alfredo Falero, La expansion de la economía de enclaves en América Latina y la ficción del desarrollo: siguiendo una vieja discusión en nuevos moldes, «Rivista Mexicana de Ciencias Agrícolas», vol. 1, 2015, pp. 145-157.
Alfredo Falero, La potencialidad heurística de concepto de economía de enclave para repensar el territorio, «Revista NERA», 18, n. 28, 2015, pp. 223-240.
Lo sviluppo globale dell’infrastruttura logistica a tutti i livelli sta cambiando il volto del pianeta e, secondo sempre più analisti, rappresenta a tutti gli effetti la costituzione materiale della globalizzazione, se per costituzione formale si potevano intendere i diversi trattati di libero commercio proliferati su scala planetaria all’indomani della fine della guerra fredda. Porti, interporti, city logistics e logistics cities, corridoi, autostrade, zone economiche speciali (Sez), gasdotti, oleodotti, ferrovie formano sempre più l’intelaiatura delle supply chain globali, con forti ripercussioni sui tradizionali concetti con cui gli scienziati sociali degli ultimi due secoli si sono cimentati nel definire e descrivere il territorio, dalle logiche geopolitiche incentrate sullo stato-nazione, all’imperialismo, alle categorie di centro-periferia formulate dalla teoria del cosiddetto sistema-mondo.
Molti di questi temi sono stati affrontati dalla geografa canadese Deborah Cowen nel libro The Deadly Life of Logistics, in cui l’autrice pone apertamente il tema della logistica come elemento motore e organizzatore di queste trasformazioni. Prendendo spunto dalla compenetrazione reciproca tra ambito militare e commerciale che caratterizza la logistica contemporanea, l’autrice ripercorre la genealogia della logistica proprio nel suo formarsi all’interno dell’ambito militare, come principio organizzatore del rifornimento delle truppe. Considera poi l’applicazione di certi aspetti della logistica militare all’ambito commerciale con la nascita negli Stati uniti, tra anni cinquanta e sessanta, della cosiddetta business logistics, e prende in esame quella che chiama «rivoluzione logistica» degli anni sessanta/settanta, rivoluzione che prende le mosse proprio dall’adozione a scopi commerciali del container, già adottato in ambito militare e considerato da molti l’invenzione tecnologica più importante dell’epoca della globalizzazione.
Nella parte centrale del libro, Cowen prende in esame le conseguenze più specificamente territoriali che si possono attribuire alla rivoluzione logistica. Se infatti lo spazio logistico questiona la territorialità nazionale, non mette fine all’idea di territorio: non vengono meno i problemi territoriali di sovranità, giurisdizione e sicurezza ma vengono affrontati in modo nuovo. È l’affermarsi di quella che Giorgio Grappi chiama «politica dei corridoi» (cfr. Logistica, Ediesse, 2016).
Progetti di corridoi logistici transnazionali – afferma Cowen – stanno proliferando in tutto il mondo: in America del nord, immediatamente dopo l’approvazione del Nafta (l’accordo commerciale tra Stati uniti, Canada e Messico), si intensificarono le pressioni per la costruzione del corridoio Canamex che collegasse i paesi. Altri corridoi di questo tipo sono nati in Africa: è il caso del Maputo corridor logistics initiative, dell’East Africa corridor, del West Africa transport logistics corridor, del Trans-Kalahari corridor e dell’International recommended transit corridor, su sui l’autrice si sofferma particolarmente nel quarto capitolo in quanto caso emblematico della trasformazione delle pratiche militari e imperiali inerenti alla gestione della forma-corridoio. Ma è soprattutto l’Asia che sta acquisendo un ruolo preponderante nella costruzione di corridoi soprattutto con le iniziative cinesi della “nuova Via della seta” e della “Via della seta marittima”. Unendo attraverso infrastrutture di trasporto e telecomunicazioni territori tra loro lontanissimi, e assemblando lungo le supply chain porti containerizzati, export processing zone (Epz) e nuove città globali, questi corridoi definiscono al loro interno sempre più spazi d’eccezione, in cui i tradizionali diritti civili, lavorativi e politici propri della cittadinanza nazionale vengono costantemente derogati e sospesi. Allo stesso tempo, tali tecniche di governo “eccezionale” sono esportate lungo le supply chain e adottate da una vasta gamma di configurazioni territoriali specifiche: caso emblematico è l’adozione del cosiddetto “modello Dubai” nei porti statunitensi con normative d’eccezione come il Container security initiative e il Transportation worker identification credential.
Emerge, tuttavia, a partire dai casi citati dall’autrice, e da molta della letteratura accademica sulla logistica, la quasi totale assenza dell’America latina, se si esclude una certa rilevanza data al Messico per il ruolo preponderante che storicamente ha avuto il modello delle maquiladora (le fabbriche di assemblaggio/trasformazione di prodotti importati che godono di un esonero dei diritti di dogana) nel processo su scala globale che viene chiamato di stretching the factory.
Eppure gli esempi di ri-configurazione logistica del territorio latinoamericano abbondano: si pensi banalmente ai progetti di ampliamento del canale di Panama o a quelli di costruzione del canale di Nicaragua in connessione con la nuova Via della seta, a cui a loro volta si vincola la costruzione di una nuova zona economica speciale addirittura nel porto di Mariel della Cuba socialista; al recente progetto Special zones for economic development and employment in Honduras (chiamate anche “città modello”) e alla nuova zona economica speciale messicana intorno all’istmo di Tehuantepec; e si pensi ai giganteschi corridoi infrastrutturali previsti dai piani Iniciativa para la infraestructura regional sudamericana (IIRSA) e Plan puebla panamá (oggi Plan Mesoamérica), che uniscono le zone di estrazione agricola, mineraria e di idrocarburi ai mercati mondiali attraverso una fitta rete di autostrade, gasdotti, pipeline e porti (significativo in tal senso è il caso della modernizzazione e ampliamento del porto di Valparaiso in Cile).
Se la letteratura anglosassone ed europea ha spesso dimenticato l’America latina, la teoria critica latinoamericana tende a inquadrare queste questioni nelle tradizionali griglie teoriche del centro-periferia ereditate dalla cosiddetta “teoria della dipendenza”, all’interno di analisi di natura più classicamente geopolitica. Ultimamente, queste tendenze hanno trovato una formulazione nella corrente del cosiddetto neo-estrattivismo, che a partire dalla critica alle politiche dei governi progressisti sorti in molti stati del continente negli ultimi due decenni, postulano un rafforzarsi della natura essenzialmente estrattiva dell’economia regionale incentrata nel cosiddetto “consenso delle commodities”, sottolineando la forte se non totale dipendenza dall’esportazione di risorse naturali e di soia.
Un’eccezione in questo contesto è il tentativo del sociologo uruguayano Alfredo Falero di riprendere e riattualizzare la vecchia nozione di economia di enclave. Seppur riconoscendo la validità delle formulazioni incentrate sul neo-estrattivismo e sulla rinnovata dipendenza del continente dall’esportazione delle materia prime, in due saggi del 2015 intitolati La expansion de la economía de enclaves en América Latina y la ficción del desarrollo: siguiendo una vieja discusión en nuevos moldes e La potencialidad heurística de concepto de economía de enclave para repensar el territorio, Falero considera i limiti di questa teoria nello stabilire mediazioni analitiche con altre tendenze presenti nella società latinoamericana, come i nuovi rapporti tra le classi, la proliferazione dei piani sociali e le mutazioni nella struttura del potere. E segnala le sue difficoltà nel captare la novità di certe riarticolazioni spaziali nella regione tipiche della globalizzazione neoliberista in un modo che, seppur mai in maniera esplicita, fa risuonare a mio avviso certe sue riflessioni con i discorsi propri dei critical logistics studies.
Nel proporre una genealogia dell’enclave come specifica e fondamentale forma territoriale del governo coloniale, sin dai tempi delle miniere di Ouro Preto e delle piantagioni di zucchero, caffè e cacao dei Caraibi, Falero considera i cambiamenti recenti che hanno portato l’enclave a espandersi e rinnovarsi su tutta una serie di settori e attività: dall’enclave industriale della maquiladora messicana, all’enclave turistica ed eco-turistica, dalla nuova enclave estrattiva della miniera a cielo aperto e dell’attività di fracking fino all’enclave di informazione e conoscenza che riunisce attività di logistica, telecomunicazioni, informatica, gestione di risorse umane, contabilità, servizi di amministrazione e consulenza finanziaria.
In un modo che ricorda l’applicazione del “modello Dubai” ai porti statunitensi, Falero considera l’incidenza diretta e indiretta dell’enclave nei territori vicini e la sua proliferazione in contesti e settori sempre più diversificati, con l’estensione delle esenzioni fiscali e doganali e delle deroghe ai diritti civili, lavorativi e ambientali, e con l’applicazione sempre più sofisticata di una forma di governance pubblico-privata, in cui il pubblico governa attivamente in funzione del privato, fornendogli l’infrastruttura necessaria e spogliandosi delle stesse prerogative di monopolio della violenza legittima in favore di guardie private e paramilitari.
Seppur ancora incipiente nella formulazione teorica, e seppur priva di un’analisi approfondita del capitalismo delle supply chain, attraverso cui l’elemento statico dell’enclave prolifera e si moltiplica nelle connessioni globali, l’idea di «economia di enclave» di Falero può facilmente risuonare con quello di corridoio. La logistica porta con sé – sostiene Cowen – modalità di governo proprie dell’epoca imperiale, e ciò è evidente anzitutto a partire dai suoi nemici: i pirati, vecchi e nuovi, le popolazioni indigene espropriate, e i lavoratori portuali e del lavoro logistico, che nella nuova fabbrica somigliano sempre più, per provenienza, mescolanza, incidenza della condizione migrante, alla motley crew atlantica descritta da Markus Rediker e Peter Linebaugh (I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli, 2004; Ia ed. Boston, 2002). Se si può affermare che le rotte del nuovo imperialismo delle supply chain ci ricordano fortemente quelle del passaggio di mezzo, la nuova mappa della depredazione dei territori e le nuove logiche di accumulazione attraverso la spoliazione non possono forse essere concepite come una riedizione postmoderna della vecchia miniera d’argento di Potosí?