Memorie della prima sollevazione indigena ecuadoriana

30 anni dalla prima sollevazione indigena (CONAIE)

Quest’anno le comunità indigene della sierra ecuadoriana non hanno ballato per la festa dell’Inti Raymi. La Pacha Mama non ha vibrato sotto i passi in circolo del zapateo. Il vento gelido di giugno, che spira dai ghiacciai dei vulcani innevati, non è stato intiepidito dal soffio ipnotico dei flauti, dalle armoniche e dalle melodiche dei Sanjuanitos. Il pututu è rimasto in silenzio. La chicha nei barili a fermentare. Il ringraziamento al sole e alla terra, celebrato sommessamente nel chiuso delle case, parzialmente incompiuto. E anche quelli a cui piace alzare il gomito e, in alcune province, perpetuare antiche consuetudini di violenza ritualizzata tra comunità, saranno rimasti delusi. Perché il Covid-19 ha colpito l’Ecuador in maniera severa, obbligando a sospendere le cerimonie della festività più attesa del calendario andino. Laddove si è ballato comunque, invece, il numero dei contagi è cresciuto immediatamente.

Quest’anno è un anniversario simbolico importante anche per i movimenti indigeni del Paese e di tutta la regione. È trascorso più di un quarto di secolo da quel fatidico mese di giugno del 1990, quando prese corpo la più grande insurrezione popolare dell’Ecuador. La sollevazione indigena dell’Inti Raymi, appunto, come è passata alla storia, che su l’America latina abbiamo deciso di ricordare attraverso il racconto di Floresmilo Simbaña, basato sulla testimonianza della leader e dirigente María Blanca Chancosa Sánchez, più spesso conosciuta semplicemente come la Blanca Chancoso.

In un contesto di grave crisi di identità della cultura occidentale, quando la vittoria a lungo sognata dall’Uomo bianco sulla natura è diventata, come dice Santiago Alba Rico, una minaccia per gli stessi vincitori, è bene riconoscere, imparare o recuperare altri valori e altre tradizioni, meno minacciose e senza deliri di onnipotenza. È bene ascoltare attentamente i discendenti dei popoli originari che da secoli conservano, trasmettono e rivendicano il diritto alla propria visione del mondo, al proprio sapere, alla propria lingua e, soprattutto, alla propria dignità ed esistenza nella propria terra.  

Bisogna essere prudenti, però, perché è facile trasfigurare la sacrosanta simpatia e solidarietà verso gli oppressi dalla civilizzazione occidentale in una forma altrettanto insidiosa di oppressione, invisibile e silenziosa, fondata sulla mistificazione benevola o sull’ingenua mitizzazione dell’altro. Da tempo chiamo questo atteggiamento orientalismo o eurocentrismo di sinistra. Una forma di rappresentare il diverso da noi che, nel caso dei popoli e dei movimenti indigeni dell’America latina, spesso fa confluire, senza soluzione di continuità, il mito rousseauiano del buon selvaggio con quello novecentesco del buon rivoluzionario. Mitologie bianche. Immagini comode e tranquillizzanti a volte, ma che quasi sempre distorcono e stereotipano cose e persone reali.                 

Quella del movimento indigeno dell’Ecuador e in particolare quella della CONAIE e delle organizzazioni che la compongono, non è una storia romantica o da romantizzare. È una storia politica. E come ogni storia politica è fatta di successi e di sconfitte, di meriti ed errori, avanzamenti e retrocessi, battute d’arresto, momenti gloriosi e altrettanti bui, ripensamenti e trasformazioni. È una storia viva di gente che vive. E lotta. Carica di tensioni e conflitti interni, contraddizioni, divisioni e compromessi. Fra regioni del Paese, settori e organizzazioni sociali, dirigenti e basi, nazionalità, sensibilità politiche, generazioni e personalità in competizione. Una storia complessa di relazioni complesse con lo Stato, la chiesa cattolica e con la stampella da sempre ambivalente della cooperazione internazionale. Con la classe media urbana. Con la diaspora in Europa e negli Stati Uniti. È la storia della creazione di un partito politico, non sempre glorioso, il Pachakutik. Ed è anche l’insieme di tante storie ancora in disputa su quello che è o potrebbe essere l’identità e la cultura indigena nel XXI secolo. In un minuscolo paese andino, incastonato fra l’Amazzonia e l’oceano Pacifico. Dipendente e periferico nel capitalismo mondiale. Per questo quella della CONAIE è una storia da ri-conoscere. E rispettare.

La sollevazione del 1990 è stata uno spartiacque epico in una storia secolare di diritti negati e di identità in movimento. Un capitolo luminoso nella lotta contro il colonialismo interno e il neoliberismo in America latina. Per questo è importante celebrarla, come l’Inti Raymi, senza dimenticare però che i trenta anni successivi sono stati gravidi di processi e avvenimenti che hanno trasformato significativamente il movimento e la regione in cui si muove. Fino allo sciopero nazionale di ottobre dell’anno passato. Che ancora una volta, e non per caso, è stato guidato da quella che senza ombra di dubbio è la parte più nobile e combattiva della società ecuadoriana. [Daniele Benzi]

Memorie della prima sollevazione indigena ecuadoriana

Analisi della sollevazione indigena del 1990 con la testimonianza di una delle protagoniste, Blanca Chancosa, storica dirigente del movimento indigeno ecuadoriano.

Di Floresmilo Simbaña da Rebelión

Traduzione di Alice Fanti e Manuela Loi

Blanca Chancosa (Asamblea Nacional del Ecuador)

In generale, si potrebbe dire che la prima sollevazione indigena del giugno 1990 si è svolta in tre atti: il primo inizia il 28 maggio con l’occupazione della chiesa di Santo Domingo, nel centro storico di Quito; il secondo il 4 luglio con la dichiarazione di sollevazione da parte della Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE) e le successive occupazioni di piazze, strade e città nelle regioni della Sierra e dell’Amazzonia da parte delle moltitudini comunitarie; il terzo quando si avvia il tavolo di dialogo tra la CONAIE e il Governo. La sollevazione si chiude il 12 luglio con le ultime mobilitazioni nelle province della sierra centrale.

In questa sede, tratteremo del primo atto e lo faremo attraverso il ricordo di una protagonista. Cercheremo di verificare alcuni dei fatti che hanno contribuito a trasformare questa prima protesta indigena in un evento storico.

La sollevazione indigena come processo

Quando si parla della sollevazione indigena del 1990 nei mezzi di comunicazione in ambito accademico, negli spazi politici, incluso lo stesso movimento indigeno, si fa generalmente riferimento alla “sollevazione dell’Inti Raymi” come fossero un solo avvenimento che inizia con la presa della chiesa di Santo Domingo lunedì 28 maggio e termina con la fine delle ultime mobilitazioni nelle province tra il 6 e il 12 giugno. Tuttavia Blanca Chancosa[1], una delle principali protagoniste, con la sua testimonianza delinea una struttura e un’immagine un po’ diverse[2] e, se paragoniamo cronologicamente le azioni con la circolazione dei documenti “ufficiali” della CONAIE e delle altre organizzazioni partecipanti, possiamo notare almeno tre eventi che progressivamente confluiscono in un processo generale senza un copione prestabilito. L’occupazione della Chiesa di Santo Domingo e la sollevazione, ossia la massiccia mobilitazione delle comunità indigene, sono due azioni con un certo grado di autonomia e dinamiche proprie che, al fragore delle circostanze politiche nazionali, finiscono per convergere e costruire un corpo politico generale, nel quale confluiscono anche le individualità.

Blanca Chancosa, mentre espone il suo racconto, passa indistintamente dal raccontare le azioni del movimento indigeno nei giorni della protesta ai ricordi sulla sua vita privata e viceversa. Racconta che quando frequentava le elementari i suoi genitori le chiedevano già di aiutarli a risolvere problemi della comunità, dal momento che lei aveva o iniziava ad avere quello che agli altri era negato: il potere della lettura e della scrittura. Quando si laureò come “insegnante normalista”, non solo padroneggiava gli strumenti della pedagogia, ma possedeva anche grande esperienza e conoscenze di gestione organizzativa di problemi legati alla terra, giustizia comunitaria per la risoluzione di conflitti interni, creazione di scuole elementari, etc. In tutte queste attività aveva dimostrato le sue doti di organizzatrice, aspetto che la portò a occupare sin da giovane ruoli dirigenziali a livello provinciale e nazionale.

Quando le affidarono la direzione dell’occupazione della chiesa di Santo Domingo aveva 35 anni. “Perché hanno chiesto a me?” si domanda, rispondendosi subito dopo “per un precedente: quando ero presidentessa dell’ECUARUNARI [1979-1984] abbiamo portato avanti azioni di solidarietà internazionale (attraverso) l’occupazione di due ambasciate e degli uffici di un organismo internazionale”. Era un curriculum magnifico per una donna così giovane ed è stato ragione sufficiente per affidarle un’azione di tale importanza.

Chancosa segnala che le azioni di occupazione e la sollevazione non avvennero di punto in bianco, in qualche provincia si stavano realizzando invasioni di terre e se ne pianificavano altre e si portavano avanti lunghi e intensi processi giudiziari per questo stesso motivo. Molti di coloro che seguivano queste cause legali erano dirigenti e militanti locali che avevano accumulato una grande esperienza di lotta, che avevano abilità organizzativa e forti convinzioni politiche che li rendevano in grado di sapere “cosa si poteva organizzare, come raggiungere e coinvolgere realmente” le persone delle comunità. È fondamentale tenere in considerazione questo primo elemento che la dirigente indica dal momento che una delle ipotesi che vennero ventilate in quei giorni dal Governo e dai proprietari terrieri, e che si sostiene tuttora, è che la sollevazione fu il prodotto di interventi e manipolazioni esterne non solo al movimento indigeno, ma al paese stesso.

Un secondo elemento da tenere in conto, e che permette di spiegare ciò che accadde durante la prima sollevazione, è la campagna per i 500 anni della resistenza contro la conquista europea. “In quel momento stavamo preparando i 500 anni della resistenza. Da un lato, si parlava di incontro [i governi di America Latina e Spagna], dall’altro di invasione [la CONAIE], di resistenza dei popoli e ci stavamo preparando per il ‘92”. La campagna era già in piedi da più o meno un anno e ciò permise di centrare il dibattito sui significati politici, ideologici, storici, economici e culturali delle problematiche strutturali che le popolazioni indigene si trovavano ad affrontare dalla conquista e dalla colonizzazione e di supportare, su queste basi, la proposta che la CONAIE portava avanti già dai tempi del Consiglio Nazionale di Coordinamento delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador CONACNIE (1983). Ciò suffraga il discorso dell’organizzazione indigena, permettendole di accelerare i processi di unità delle diverse organizzazioni di base; lo slogan “nel ’92, nessun’altra hacienda[3]” testimonia questa confluenza e venne accolta immediatamente nei territori dove quotidianamente si vivevano gli scontri per lotta alla terra. Tutti questi processi fecero comprendere la necessità di “azioni nazionali” come strumento per portare la lotta locale e materiale-economica al piano politico-nazionale, dando vita a un corpo socio-organizzativo generale. Blanca Chancosa afferma che “in varie province iniziano occupazioni [di grandi proprietà]”. Tutto questo indica che in diverse province la mobilitazione era già parzialmente in atto, quello che la CONAIE doveva fare era portarla al livello nazionale.

La campagna per i 500 anni nasce come uno spazio che arriverà a mettere insieme la maggior parte degli intellettuali indigeni, molti dei quali con ruoli dirigenziali, che costruiscono un discorso e una proposta che condividono e alimentano con meeting, workshop, assemblee e pubblicazioni, tra le quali meritano particolare attenzione: le memorie del secondo Congresso della CONAIE (1989); Le nazionalità indigene in Ecuador – Il nostro processo organizzativo (1989); Le nazionalità indigene e lo stato ecuadoriano di AmpanKarakras (1988). Questi intellettuali, professionisti e dirigenti appartengono alla generazione che, oltre a forgiarsi nell’ardore della lotta comune, hanno avuto accesso all’educazione secondaria e superiore che lo Stato ecuadoriano ha promosso in uno dei suoi ultimi tentativi di “sviluppismo” nazionale, grazie al boom petrolifero degli anni ’70.

Inoltre, la campagna dei “500 anni di resistenza indigena” dà vita a un altro importante effetto: riesce a stringere alleanze con altre organizzazioni sociali che agiscono nell’ambito del conflitto agrario, come il FUT[4], la CEDOCUT[5], il Coordinamento Popolare, le organizzazioni cristiane di base, tra le varie, con le quali oltre che a coordinare azioni di lotta, permette di globalizzare la proposta della campagna, che diventa a questo punto i “500 anni di resistenza indigena e popolare” e tramite lo slogan “1992, nessuna hacienda in Ecuador”  consente di includere queste organizzazioni nella sollevazione.

Un terzo elemento che incide molto come causa congiunturale della sollevazione è la frustrazione per il non rispetto da parte del Governo di Rodrigo Borja (1988-1992) delle promesse di rilanciare la riforma agraria e di riconoscere i diritti dei popoli indigeni, nonché l’indebolimento del dialogo tra la CONAIE e il Governo che si stava verificando dall’inizio del mandato Borja. Le tematiche del dialogo toccano problemi locali e nazionali, come le terre, l’acqua, l’impatto dell’estrazione petrolifera, l’educazione interculturale bilingue, le infrastrutture, ecc. Il Governo crea mediante decreto il Sistema di Educazione Interculturale Bilingue, ma non assegna un budget sufficiente per costruire infrastrutture, assumere docenti, acquistare materiali educativi, ecc. e le proteste della CONAIE non vengono ascoltate, nonostante i numerosi tavoli di dialogo instaurati, se non per quanto concerne la sottoscrizione di accordi senza alcuna applicazione pratica. Il 9 maggio 1989 i dirigenti della CONAIE e alcuni delegati del Governo si riuniscono a Sarayacu e sottoscrivono un documento di impegno noto come “Accordo di Sarayacu” (FEPE[6] 1991, 6). Il documento tocca sette temi: terra e territorio; questioni giuridico-politiche; educazione; scienza e cultura; salute; infrastrutture; finanziamento; politica internazionale. Questo documento subisce la stessa sorte del Decreto sull’educazione bilingue: non avrà risposte effettive. Allo scopo di fare pressione sul Governo, la CONAIE emana una serie di proposte utili a rendere effettivi gli accordi, ma nessuna di queste ha ottenuto riscontro. I percorsi di dialogo si stavano chiudendo e il Governo perdeva credibilità agli occhi delle organizzazioni che formano la CONAIE.

Si accende la miccia

La mattina di martedì 29 maggio 1990, la stampa cartacea informava gli ecuadoriani che il giorno precedente, nelle prime ore del mattino, “un gruppo di contadini aveva occupato la chiesa di Santo Domingo, avanzando una serie di rivendicazioni e soluzioni per i conflitti della terra che non erano stati risolti” (El Comercio 1990, B-4). Blanca Chancosa ricorda come quello fosse uno dei principali obiettivi dell’occupazione, far sì che la stampa diffondesse tra gli ecuadoriani la chiamata all’“azione nazionale”; il secondo obiettivo, che dipendeva dal primo, era far sì che “i compagni nelle comunità, venendo a sapere dell’occupazione, si sentissero motivati a unirsi alla sollevazione. Questo volevamo con l’occupazione: accendere la miccia”. Pronunciando l’ultima frase, alza la testa, ma il suo sguardo non è più limitato dalle pareti del suo piccolissimo ufficio, mostrando come quei fatti le infondano carica, ma le creino anche spossatezza.

Oltre al problema della terra, l’altro rilevante conflitto che occupava l’agenda dell’organizzazione in quel momento era “come rafforzare l’educazione culturale bilingue, che rappresentava l’altra questione, quell’anno”. Durante la V Assemblea Nazionale della CONAIE, tenutasi dal 25 al 28 aprile 1990 a Pujilí, Cotopaxi, vennero discussi questi temi e altri di importanza locale e nazionale sulla base dei quali si decise di “realizzare un’azione nazionale”. Una delle questioni che generò glaciali dibattiti fu su quale tipo di azione fosse possibile realizzare e quali fossero le condizioni di politica nazionale in cui si sarebbe sviluppata. Blanca Chancosa ricorda come ci fosse consenso sulla necessità di un’azione nazionale, ma che continuasse la discussione sulla sua realizzazione concreta, “il come non era ancora stato deciso”. In un primo momento, l’azione nazionale consisteva, per tutti, nel “diffondere le occupazioni delle terre”, dal momento che rappresentavano, tra alti e bassi, una costante sin dagli anni ’70, ma che dalla fine degli anni ’80, prima della prima sollevazione, erano aumentate a dismisura soprattutto a causa della consegna ai proprietari terrieri di 41.862 certificati di non ammissibilità dell’esproprio con i quali si chiudeva, di fatto, qualunque tentativo di riabilitare il processo di riforma agraria, fatto per cui “si pensò fosse necessaria un’azione a un altro livello”.

Nella V Assemblea, i dirigenti della CONAIE suggerirono di discutere una proposta intitolata “Documento Politico” (FEDEPE 1991, 28) che presentava le linee generali della situazione politica nazionale, nel quale si criticava il governo di Rodrigo Borja per le sue politiche dal taglio neoliberali, dando enfasi alla difficile situazione vissuta dalle comunità indigene, il mancato rispetto degli impegni assunti con i tavoli di dialogo e l’abbandono progressivo delle politiche di riforma agraria. Nella parte intitolata “Il nostro lavoro organizzativo”, si analizzavano le condizioni politico-organizzative sviluppate dalle tre organizzazioni regionali, gli spazi di coordinamento nazionale che si stavano implementando e alla fine si assicurava categoricamente:

“È per questo che, di fronte alla mancanza di risposte governative e dopo aver analizzato la situazione di fame e povertà di tutti gli ecuadoriani, la CONAIE si vede costretta a mettere in campo, per la prima volta, una misura che di fatto mobiliti tutte le nostre organizzazioni e comunità di base, andando in direzione di uno SCIOPERO NAZIONALE. Presentiamo questa misura di fronte all’Assemblea e ci rimettiamo alla sua decisione per definire la data e i meccanismi di azione” (FEDEPE 1991, 35).

La V Assemblea decise di accettare la proposta, ma di fatto cambiò le caratteristiche della misura; nella Risoluzione numero 13 si legge: “Preparare dal giorno 4 al giorno 6 di giugno di quest’anno la prima sollevazione indigenza nazionale, per organizzare la quale si formerà una commissione politica che sarà strutturata secondo le linee guida contenute nel Mandato” (FEDEPE 1991, 38). Del mandato ci occuperemo più avanti.

Si decise anche di formare dei comitati provinciali per organizzare la sollevazione. “Sancita questa risoluzione, tutti sono rientrati nelle loro province” ricorda Chancosa che, a quel tempo, era parte del Consiglio Politico della Federazione Indigena e Contadina di Imbabura (FICI), “e in questo senso si iniziava anche a lavorare con altri compagni in altre zone [fuori da Imbabura], facendo riunioni in ambito contadino e anche con altri settori sociali”. Spiega che fu in questo spazio sostenuto dalla FICI, a cui furono invitati dirigenti e militanti di altre province, che si decise di “accendere la miccia”, ossia di compiere un’azione di richiamo che creasse le condizioni per la prima sollevazione.

Inizialmente, la sollevazione non aveva un formato stabilito. Quando si pensava allo SCIOPERO NAZIONALE si avevano come riferimento le lotte operaie urbane, ossia mobilitazioni in strade e piazze, ma “nel nostro caso si trattava di occupazioni di terre o di altro a seconda di ciò che ogni provincia era in grado di fare”. In questo stesso contesto, dopo aver valutato gli effetti della chiamata alla sollevazione rivolta alla base dell’organizzazione e aver verificato che ancora le forze radunate non erano sufficienti, si decise di “occupare la chiesa di Santo Domingo, nottetempo, una settimana prima della sollevazione, per accendere la miccia”, vale a dire motivare la gente a partecipare alla sommossa.

Per ragioni di sicurezza, l’iniziativa, durante la sua preparazione, non fu comunicata alla dirigenza nazionale della CONAIE. L’occupazione avvenne nel giorno e nell’orario accordati e la sua esecuzione fu impeccabile. Per l’occupazione “io sono venuta a Quito [da Imbabura] il giorno prima, con tutta la squadra, come da piani; l’occupazione era prevista per le cinque della mattina e, una volta entrati, installammo un lucchetto da dentro e ognuno assunse il ruolo e le responsabilità pianificati”. Tuttavia la chiesa non era vuota, era l’ora della prima messa e subito dopo ci sarebbe stata la seguente, quindi il primo problema fu con i fedeli che stavano seguendo la celebrazione in corso, che stava per concludersi, e coloro che si accalcavano per partecipare a quella successiva. Tutti i fedeli vennero colti alla sprovvista e si adirarono, “ci chiamarono dispregiativamente indios, ci dissero di tutto: selvaggi, eretici, anticristo. Ci insultarono, ma noi chiudemmo comunque”. Il prete non si tirò indietro, dopo averli definiti profanatori, cercò aiuto per cacciarli, ma era già troppo tardi, gli indigeni avevano già tutto sotto controllo. All’inizio erano una settantina di persone, ma alla fine gli occupanti della chiesa arrivarono ad essere circa duecento.

Chi era dentro si occupò di mettere in atto tutte le misure di sicurezza e le strategie di sopravvivenza dal momento che non si sapeva quanto tempo sarebbe durata l’occupazione; chi era fuori doveva informare i mezzi di comunicazione e i dirigenti nazionali affinché si assumessero la responsabilità del caso. Lo scopo dei proclami che arrivavano da dentro la chiesa era denunciare i conflitti per la terra: 111, per 72 dei quali erano in corso processi giudiziari. Si chiedeva un dialogo diretto con il Presidente della Repubblica per cercare risposte a questi e altri problemi; si pretendeva una commissione di mediazione costituita dalla “Commissione Ecuadoriana per i Diritti Umani – CEDOCUT e dalla chiesa” (El Comercio 1990, 26); si chiedeva che fosse l’Arcivescovo di Riobamba, Victor Corral, a dirigere la commissione, in modo da garantire la sicurezza dei dirigenti e facilitando il dialogo.

Dal momento che questa azione era stata una decisione soprattutto della FICI e che nei giorni dei fatti i principali dirigenti della CONAIE si trovavano fuori Quito, qualcuno anche fuori dal paese, qualcuno dovette rientrare immediatamente per fare da portavoce nazionale. Il presidente dell’organizzazione, Cristóbal Tapuy, rifiutò di assumersi la sua responsabilità e le organizzazioni di base decisero che a dover assumere il comando fosse il vicepresidente, Luis Macas, il quale subito prese parola, spiegò le ragioni dell’occupazione e presentò la proposta politica del movimento indigeno, ufficializzando pubblicamente la chiamata alla sollevazione.

Fino al 4 giugno, giorno della sollevazione, il dialogo preteso sin dall’inizio dell’occupazione non ebbe luogo poiché, da un lato, il governo lo aveva vincolato alla sospensione dell’azione e di tutta la mobilitazione, affermando che “non avrebbero agito sotto pressione” e, dall’altro, la CONAIE non avrebbe interrotto l’iniziativa se non si fosse creato il tavolo di discussione. La posizione inflessibile degli indigeni era conseguenza della mancanza totale di risultati nei quasi due anni di dialogo e, come per gettare benzina sul fuoco, la Camera dei proprietari terrieri e degli allevatori resero pubblica la propria posizione, accusando gli indigeni di essere manipolati da organizzazioni internazionali, di creare violenza nelle campagne e di danneggiare l’economia nazionale, si opposero alla “tolleranza governativa in relazione alla presenza di attivisti pseudo religiosi stranieri e nazionali […] che si sono infiltrati nei settori contadini, creando il più totale disordine e caos” (Moreno y Figueroa 1992, 77) e misero all’erta sulle conseguenze fatali che si sarebbero potute verificare.

L’occupazione della chiesa andò oltre i suoi obiettivi originali, oltre “accendere la miccia”: mise in luce l’atteggiamento intransigente del governo nazionale e palesa la riluttanza dei proprietari terrieri a trovare soluzioni politiche ai conflitti per la terra; inoltre smaschera le strutture sociali, politiche e culturali di un sistema egemonico razzista che, di fronte alla forte presenza degli indigeni, non esita a sfoderare tutti i dispositivi coloniali di discriminazione. La decisione e la fermezza di coloro che si trovavano dentro la chiesa e l’atteggiamento violento del governo e dei possidenti indignò le comunità, motivandole del tutto a scendere in strada nelle città capitali delle province, a occupare terre, ecc. Dalle province più vicine arrivano a Quito per solidarizzare con l’occupazione e alla sollevazione risposero non solo le comunità indigene, ma anche quasi tutti i settori urbani organizzati.

Dentro la Chiesa, le notizie dell’inizio della sollevazione, ascoltate per radio, motivarono tutti. La tensione dei primi giorni venne rimpiazzata dall’ottimismo e iniziano ad arrivare altri delegati dalle province. Avvenne la convergenza tra occupazione e sollevazione, dando all’“azione nazionale” dimensioni inattese. Con la sollevazione si inizia a parlare di “Mandato per la difesa della vita e dei diritti delle nazionalità indigene”. Di questo documento esistono tre versioni: la prima costituta da “Sollevazione indigena: documenti e testimonianze”, pubblicata dalla FEPE, che nella presentazione sostiene di contenere documenti ufficiali e originali, frutto della collaborazione di Luis Macas, allora Presidente della CONAIE, e di Luis Maldonado, che coordinava la campagna dei 500 anni; la seconda che si trova nel libro “La sollevazione indigena dell’inti raymi” del 1990 di Segundo Moreno e José Figueroa, che dà come fonte Kipu # 15 de 1990; la terza che si trova nell’archivio digitale dello storiografo statunitense Marc Becker[7]. Di quest’ultima se ne trovano quattro versioni: la prima del testo “Presente e futuro delle popolazioni indigene” di José Sánchez Parga, la seconda del Diario Hoy, la terza del bollettino Riccharishun # 2 della ECUARUNARI e la quarta del libro “Da contadini a cittadini diversi” di Jorge León Trujillo.

Nella prima versione, i primi sei punti sono sul tema della terra, tema dell’acqua, fondi per il sistema di educazione bilingue, fondi statali relazionati ai temi agricoli; il tema della plurinazionalità e i diritti culturali si trovano a partire dal punto sette. Nella seconda versione, quella in 16 punti, resa nota dopo la sollevazione, troviamo in primo luogo il tema della plurinazionalità e solo dopo vengono le questioni su terra, agricoltura, acqua, etc. Questa modifica non è solo relativa all’ordine, ma esprime un cambio nel carattere politico della proposta; ricordiamo che la testimonianza di Blanca Chancosa pone enfasi sui conflitti terrieri come motivo della “azionale nazionale” e questo emerge anche dalle pubblicazioni della CONAIE intercorse tra la loro V Assemblea e l’inizio della sollevazione.

Questo cambio nell’ordine delle richieste può prestarsi ad accuse di manipolazione degli obiettivi reali del movimento e della sollevazione. Tuttavia, osservando i documenti, i proclami e le pubblicazioni della CONAIE, come quelli sopramenzionati, che furono dibattuti e approvati da Assemblee e Congressi dell’organizzazione, la plurinazionalità si colloca come concetto che permette di rendere una categoria politica la realtà dei popoli indigeni nel panorama nazionale; così come la sollevazione superò di gran lunga la logica rivendicativa della lotta, sia per quanto riguarda i temi strutturali e circostanziali, sia per l’ampiezza sociale della mobilitazione, il mandato doveva essere aggiustato a questa nuova realtà creata dalla sollevazione.

Il dialogo CONAIE-Governo iniziò il 6 giugno e continuò per diverse settimane, anche se le mobilitazioni e le altre azioni terminarono il 12 giugno.

Per concludere, possiamo rilevare che la prima sollevazione indigena del 1990 non fu un unico avvenimento, ma varie azioni che si unirono in un processo globale; che la sollevazione sfuggì a qualsiasi previsione e si andò “costituendo” allo svolgersi degli eventi, ai comportamenti e alle reazioni dei suoi tre attori principali (movimento indigeno, governo nazionale, proprietari terrieri). Infine, che i discorsi, i documenti e le proposte diffusi dalla CONAIE durante la sollevazione non sono mai stati univoci, ma risultano essere pieni di tensioni, di compromessi, di rielaborazioni continue. Merita un discorso a parte la questione della denominazione “sollevazione dell’inti raymi”, dato che non la si ritrova in nessun documento o discorso dei dirigenti della CONAIE, né prima né durante i giorni della sollevazione. La prima volta che la si chiama così è nel titolo del libro di Moreno e Figueroa che analizza la prima sollevazione e che venne pubblicato nel 1992.

Una prima versione di questo lavoro fa parte del libroAsí encendimos la mecha!Treinta años del levantamiento indígena en Ecuador: una historia permanentepubblicato da El Pueblo Kitu Kara, Universidad Andina Simón Bolívar, Landis Live e AbyaYala.

Floresmilo Simbaña: ex dirigente della CONAIE, ex presidente della Comuna Tola Chica.

Riferimenti:

Federación de Estudiante Politécnicos del Ecuador FEPE. 1991. Levantamiento Indígena: Documentos y Testimonios CONAIE. FEPE-90-92. Guayaquil.

Moreno Segundo y Figueroa José. 1992. El levantamiento indígena del inti raymi. AbyaYala. Quito-Ecuador.

Diario El Comercio. 1990.

Entrevista a Blanca Chancosa. 1 de agosto de 2018


[1] Dirigente storica del movimento indigeno ecuadoriano, co-fondatrice dell’ECUARUNARI (Confederación de la Nacionalidad Kichwa del Ecuador, NdT) e della CONAIE. Attualmente, è Vicepresidente dell’ECUARUNARI.

[2] Tutte le citazioni della dirigente Blanca Chancosa qui riportate sono tratte dall’intervista a lei realizzata il 1° agosto 2018.

[3] Con il termine hacienda in spagnolo si fa riferimento a una grande proprietà terriera, un feudo o latifondo [NdT].

[4] Frente Unitario de Trabajadores [NdT].

[5] Confederación Ecuatoriana de Organizaciones Clasistas Unitarias de Trabajadores [NdT].

[6] Federación de Estudiantes Politécnicos del Ecuador [NdT].

[7] https://www.yachana.org/earchivo/conaie/16puntos.php.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...