
María Galindo scrive sempre cose che ti provocano. Anche quando sei d’accordo. O pensi che abbia torto. Cose che ti costringono a riflettere. Sul patriarcato e l’identità di genere. Sulla razza. Il colonialismo. Sulle relazioni di potere che sottendono. Oggi. Nel XXI secolo. Scrive in modo fiero e viscerale in una società visceralmente e fieramente razzista e patriarcale. La Bolivia. Da secoli violentata dal colonialismo interno e globale. Scrive cose scomode che spesso deve pagare in prima persona. Come l’articolo Sedición en la Universidad Católica sul colpo di Stato dell’anno passato per impedire la rielezione di Evo Morales. Un articolo che è stato censurato dal diario Página Siete, su cui da più di dieci anni, ogni mercoledì, curava una rubrica fra le più lette del giornale e nel Paese. Paradossalmente, forse. Perché è da lì che denunciava gli abusi e le falsità del “governo dei movimenti sociali” e di chi, nonostante l’estrazione plebea, la militanza sindacale e l’origine indigena, ancora oggi definisce senza mezzi termini un caudillo.
María Galindo è psicologa, pubblicista e anarco-femminista. Scrive in modo schietto. Senza fronzoli o peli sulla lingua. Violando i codici linguistici e culturali di un continente che ha introiettato l’arte del ventriloquio e il barocchismo esasperato della parola e delle forme come strategia di adattamento, mimesi, estetica e persino resistenza alla violenza sorda del razzismo e del patriarcato coloniale. La cofondatrice del collettivo Mujeres Creando è una vera disobbediente. La sua voce fuori dal coro è preziosa per l’America latina. Bisogna farla conoscere. Sostenere e proteggere. Perché come diceva Leonardo Sciascia a proposito della sua complicità con Pier Paolo Pasolini, María Galindo ha un coraggio e una capacità di provocazione straordinaria. Con María Galindo si è d’accordo anche quando ha torto.
Nell’articolo che presentiamo oggi, pubblicato originalmente su Radio Deseo un paio di mesi fa, ci provoca sulla maniera in cui il Coronavirus sta sconvolgendo le nostre vite. Su come i governi lo stanno utilizzando per addomesticarci e terrorizzarci più di quanto già non fossimo. Su come ci renda proni all’invasione delle nuove tecnologie digitali e al predominio della vita virtuale. Su come possa trasformarsi, pericolosamente, in uno strumento di classificazione sociale e dei corpi. Ed è qui che María Galindo ci provoca doppiamente raccontandoci quello che succede quando il virus valica il confine e arriva in paesi come la Bolivia. Con le esiliate del neoliberismo europeo per continuare a riprodurre un ordine coloniale del mondo che ci ha resi degli idioti che possono solo ripetere e copiare. Un ordine ipocrita e fasullo, naturalmente, al quale non si dovrebbe far altro che disobbedire [Daniele Benzi].
Disobbedienza, grazie a te sopravvivrò
di María Galindo da Apocaelipsis
Cofondatrice del movimento boliviano anarco-femminista Mujeres Creando
(Testo pubblicato originariamente su Radio Deseo e ceduto da María Galindo a #Apocaelipsis)
Traduzione di Alice Fanti e Manuela Loi

Ho il Coronavirus perché, anche se la malattia non sembra aver ancora invaso il mio corpo, ce l’hanno persone che amo; perché il Coronavirus sta attraversando città in cui sono passata nelle ultime settimane; perché il Coronavirus, con uno schiocco di dita, come un miracolo, una catastrofe o una tragedia irrisolvibile, ha cambiato tutto quanto. Ovunque tu vada lui c’è, dovunque tu arrivi lui è arrivato prima e oggi non si può pensare a niente senza che ci sia di mezzo il Coronavirus. Sembra che non sia solo io ad avere il Coronavirus, ma sembra che lo abbiamo tutte, tutt*, tutti; tutte le istituzioni, tutti i paesi, tutti i quartieri e tutte le attività.
Ciò che appare chiaro è che il Coronavirus, più che una malattia, sembra essere una forma di dittatura mondiale multigoverno, militare e di polizia.
Il Coronavirus è la paura del contagio.
Il Coronavirus è un ordine di confinamento, per quanto assurdo sia.
Il Coronavirus è un ordine di distanziamento, per quanto impossibile sia.
Il Coronavirus è una concessione di annullamento di tutte le libertà che si applica, in nome della sicurezza, senza diritto di replica né di discussione.
Il Coronavirus è un codice che definisce le cosiddette attività essenziali, un codice secondo il quale l’unica cosa permessa è andare a lavorare o fare il telelavoro come segnale del fatto che siamo viv*.
Il Coronavirus è uno strumento, a quanto pare efficace, per cancellare, minimizzare, nascondere o mettere da parte altri problemi sociali e politici che stavamo mettendo a fuoco. All’improvviso e come per magia, spariscono tutti sotto il tappeto o dietro l’elefante.
Il Coronavirus è l’eliminazione dello spazio sociale più vitale, democratico e importante delle nostre vite: le strade, quell’esterno che virtualmente non dobbiamo attraversare e che in molti casi era l’unico spazio che ci rimaneva.
Il Coronavirus è il dominio della vita virtuale, devi essere collegata a una rete per comunicare e per sentirti parte della società.
Il Coronavirus è la militarizzazione della vita sociale.
È la cosa più simile a una dittatura, dove l’informazione, se non in porzioni calcolate per generare paura, è assente.
Il Coronavirus, nel momento in cui ci dicono che la cosa più pericolosa è riunirci e incontrarci, è un’arma, apparentemente legittima, di distruzione e divieto della protesta sociale.
Il Coronavirus è il ritorno del concetto di frontiera nella sua forma più assurda: ci dicono che chiudere una frontiera è una misura di sicurezza, quando il Coronavirus è dentro e quella chiusura non impedisce l’ingresso di un virus microscopico e invisibile, ma blocca e classifica i corpi che potranno entrare o uscire da quelle frontiere.
Lo spazio Schengen, quello da cui il Coronavirus è partito per diffondersi in questa parte di mondo in cui io vivo, ha chiuso i suoi confini alla circolazione dei corpi che arrivano da fuori questo spazio e ha realizzato, finalmente, il sogno fascista per il quale gli/le altri/e sono il pericolo.
Il Coronavirus potrebbe essere l’Olocausto del XXI secolo, in grado di perpetrare un massiccio sterminio di persone che moriranno e stanno morendo poiché i loro corpi non resistono alla malattia e i sistemi sanitari li/le hanno classificati/e, secondo una logica darwiniana, come inutili e, per questa ragione, devono morire.
Per salvare le loro economie coloniali, saltano fuori milioni di euro per pagare affitti, fatture di servizi, stipendi quando, fino a poco prima, a queste masse proletarizzate si tagliava persino il cielo, dicendo loro che non c’erano soldi per ripagare il debito pubblico. Ora che queste masse sono state spaventate a morte, obbedienti e recluse, le premiano con la dolce consolazione di pagare i loro conti, solo dopo che sono stati ripagati quelli che realmente importano, ossia quelli delle corporazioni e degli Stati.
“Socialisti” come quelli che governano la Spagna parlano di una guerra che vinceremo tutti insieme. Amano questa parola, credono serva per fare squadra e per rendere la malattia il presunto nemico ideale che ci unisce. Niente di più fascista che dichiarare una guerra contro la società e contro la democrazia approfittando della paura di una malattia. Niente di più fascista che rendere le case delle persone la loro prigione. Niente di più neoliberale che proclamare il “si salvi chi può” come strategia difensiva.
E cosa succede quando il Coronavirus valica il confine e arriva in paesi come la Bolivia?
Iniziamo dicendo che qui il Coronavirus era già atteso con trepidazione dalla dengue, che nel tropico uccide, senza titoli sui giornali, le persone malnutrite, i/le bambini/e e chi vive in zone suburbane malsane. La dengue e il Coronavirus si sono incontrati al cospetto di tubercolosi e cancro che, in questa parte del mondo, sono condanne a morte.
Gli ospedali, costruiti per lo più all’inizio del XX secolo con il boom dello stagno e in seguito modernizzati negli anni ’70 del secolo passato durante l’auge dello “sviluppismo”, sono baracconi collassati da tempo e in cui il malcostume è sempre stato quello di curare la gente in base a quanto denaro aveva per pagare le medicine, tutte importate e inaccessibili.
Arriva il Coronavirus e arriva in aereo, non con i turisti, ma con la nostra gente esiliata da quel neoliberismo che ha creato ponti affettivi che fanno sì che si vadano a trovare estranei chiamati figli, fratelli o genitori.
Arrivano con regali e con corpi infetti. Tuttavia la malattia non arriva solo coi loro corpi, ma anche in prima classe. Arriva perché deve arrivare, molto semplicemente. Sembra incredibile doversi appellare al buon senso e dire che le frontiere non si possono chiudere, così come non si può mettere un tetto al sole, pareti alle montagne o porte alla foresta.
È arrivato da mille vie, ma è stato il corpo di una delle nostre esiliate dal neoliberismo ad essere stigmatizzato e maltrattato come “untore”, nonostante lei e noi siamo stati e siamo quelli che mantengono questo paese. Le famiglie dei malati, in preda al panico, si oppongono al suo ricovero, perché ancor prima che in un corpo, il coronavirus è arrivato sotto forma di psicosi collettiva, di istruzioni per la classificazione, di istruzioni per il distanziamento.
L’ordine coloniale del mondo ci ha resi degli idioti che possono solo ripetere e copiare.
Private e privati della facoltà di pensare, nel caso boliviano la Presidentessa ha deciso di copiare pezzi del discorso e delle soluzioni adottate dal Presidente spagnolo e, leggendo da un monitor, lancia un pacchetto di misure come se fosse seduta a Madrid e non a La Paz. Parla di guerra da vincere insieme, degli imprenditori con cui tratterà e lancia una raffica di divieti e il coprifuoco.
L’unica cosa diversa nel suo discorso è stato il riferimento alla Cooperazione Internazionale, il noto accattonaggio in cui sguazziamo affinché ci donino gli avanzi delle loro mascherine e delle loro idee.
L’unica cosa diversa nel suo discorso è che qui non ci sono eccedenze, né migliaia né tantomeno milioni di euro con cui pagare alcun conto. Qui la sentenza di morte era scritta prima che il Coronavirus arrivasse con un aereo turistico.
Mentre attendo un’epifania che ci chiarisca che cosa dobbiamo fare e che sono certa arriverà attraverso il corpo debole e febbricitante che ce la rivelerà, mentre mi dedico con le mie sorelle a disobbedire al divieto di fabbricare gel fatto in casa e lo produciamo per venderlo, dato che dobbiamo anche sopravvivere, mentre sfoglio i miei libri di medicina tradizionale per produrre un unguento antivirale per l’apparato respiratorio, come quelli che realizzavamo quando Mujeres Creando era una farmacia popolare in una zona periferica della città, penso all’assurdità.
Dal momento che c’è il coprifuoco, è vietato sopravvivere a tutti/e quelli/e che lavorano di notte?
La società boliviana è una società proletarizzata, senza salari, senza posti di lavoro, senza industria, dove la grande massa sopravvive in strada in un tessuto sociale gigante e disobbediente. Non una delle misure copiate si adatta alle nostre reali condizioni di vita, non solo per i debiti, ma anche per la vita stessa. Tutte e ognuna di quelle misure copiate da economie che non hanno niente a che vedere con la nostra non ci proteggono dal contagio, ma cercano di privarci delle forme di sussistenza che sono la vita stessa.
La nostra unica vera alternativa è ripensare il contagio.
Coltivare il contagio, esporci al contagio e disobbedire per sopravvivere.
Non si tratta di un gesto suicida, si tratta di buonsenso.
Ma forse in questo senso comune c’è tutto il senso più potente che possiamo sviluppare.
Cosa succede se decidiamo di preparare i nostri corpi al contagio?
Cosa succede se partiamo dal presupposto che ci contageremo sicuramente e rielaboriamo, alla luce di questa certezza, le nostre paure?
Cosa succede se di fronte all’assurda, autoritaria e idiota risposta statale al Coronavirus gettiamo le basi per l’autogestione sociale della malattia, della debolezza, del dolore, del pensiero e della speranza?
Cosa succede se ci prendiamo gioco della chiusura delle frontiere?
Cosa succede se ci organizziamo socialmente?
Cosa succede se ci prepariamo a baciare i morti e a curare le vive e i vivi all’infuori dei divieti, dato che l’unica cosa che stanno producendo è il controllo del nostro spazio e delle nostre vite?
Cosa succede se passiamo dall’approvvigionamento individuale ai pranzi collettivi[1], contagiosi e festosi, come abbiamo fatto tante volte?
Diranno ancora una volta che sono matta e che la cosa migliore è obbedire all’isolamento, alla reclusione, al non contatto e alla non contestazione delle misure, mentre la cosa più probabile è che tu, il tuo amante, la tua amica, la tua vicina o tua madre vi contagerete.
Diranno ancora una volta che sono matta, mentre sappiamo che in questa società non ci sono mai stati i letti di cui abbiamo bisogno e che se ci presentiamo in ospedale moriremo lì, sulla porta, pregando.
Sappiamo che la gestione della malattia sarà soprattutto domestica, prepariamoci socialmente a questo.
Cosa succede se decidiamo di disobbedire per sopravvivere?
Abbiamo bisogno di mangiare in attesa della malattia e di cambiare dieta per resistervi.
Abbiamo bisogno dei/delle nostri/e kolliris (medici tradizionali, NdT) e di creare con loro rimedi non farmaceutici, sperimentare con i nostri corpi e testare ciò che ci fa stare meglio.
Abbiamo bisogno di foglie di coca per resistere alla fame, di farina di cañahua[2] e di amaranto, di zuppa di quinoa. Tutto ciò che ci hanno insegnato a disprezzare.
Che la morte non ci colga raggomitolati per la paura mentre obbediamo a ordini idioti, che ci colga mentre ci baciamo, mentre facciamo l’amore e non la guerra.
Che ci colga mentre cantiamo e ci abbracciamo, perché il contagio è imminente.
Perché il contagio è come respirare.
Non poter respirare è ciò a cui ci condanna il Coronavirus, più che per la malattia in sé per la reclusione, il divieto e l’obbedienza.
Mi viene in mente Nosferatu quando, in una scena indimenticabile, con la morte imminente e la peste, incarnata da topi, che ha invaso tutto il villaggio, tutti/e si siedono a un grande tavolo nella piazza e condividono un banchetto collettivo di resistenza. Che ci trovi così, il Coronavirus: pronte per il contagio.
[1] Qui l’autrice, nella versione originale dell’articolo, usa il termine “olla común”, letteralmente pentola comune, con il quale si fa riferimento a un tipo di iniziativa di partecipazione comunitaria tra vicini e compaesani che cercano di risolvere il problema dell’alimentazione di base. È un’esperienza, nata in Cile, simile a quella delle mense popolari, ma con un carattere maggiormente autogestito e autonomo [NdT].
[2] Un cereale andino simile alla quinoa, ma meno conosciuto [NdT].