¡Hasta siempre, siglo xx! – Parte 7 (ultima?) #DiarioCubano #Cuba #FidelCastro

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Settima e (forse) ultima puntata del Diario Cubano di Perez Gallo, Nino Buenaventura e Gimmi che ormai sono di ritorno alla base dopo l’ultimo saluto a Fidel. Le altre puntate del diario-reportage: LINK 

Giorno 8

Lunedì 5 dicembre, dopo la parentesi santiagueña, è un altro giorno di viaggio.

Per l’ennesima volta veniamo svegliati di soprassalto, stavolta alle 8.30 del mattino dalla, pur simpatica, señora della casa particular. Stavolta, in realtà, ha ragione lei: non ci siamo fatti vivi tutto il giorno prima e non le abbiamo nemmeno fatto sapere quando le avremmo lasciato la stanza.

Confermiamo la nostra decisione di andarcene oggi stesso, prepariamo gli zaini, andiamo a fare colazione e facciamo una visita al cimitero di Santa Ifigenia, dove ieri si è celebrato il funerale del Comandante.

La giornata è soleggiata, il cimitero illuminato dal sole dell’una è meraviglioso.

La tomba di Fidel Castro Ruz è quanto di più umile ci si possa immaginare per un uomo che ha fatto una rivoluzione partendo con pochi ventenni armati alla bell’è meglio, che ha tenuto le redini di un paese per 57 anni e che per altrettanto tempo si è frapposto come un gigante alla prima potenza del mondo.

Si tratta niente più che di un grande sasso, con su scritto semplicemente “FIDEL”, con dei fiori di contorno e al lato l’incisione del suo famoso e meraviglioso discorso del primo maggio del 2000: ¿Qué es revolución? (si possono inserire i sottotitoli in italiano).

Il sasso è a forma di chicco di mais, in ossequio alla famosa frase del poeta, rivoluzionario ed eroe nazionale cubano José Martí, il teorizzatore del concetto di “Nuestramerica” che ha ancora così tanta presa sulle istanze di liberazione dell’America latina oggi. Il suo verso recitava: “Toda la Gloria del Mundo cabe en un grano de maíz” (tutta la gloria del mondo sta dentro a un chicco di mais).

E proprio a simboleggiare questo gemellaggio tra i due grandi della patria cubana, la tomba di Fidel è posta pochi metri più avanti della cappella, ben più maestosa, che ospita il leggendario poeta, con tanto di una statua che lo raffigura mentre si sporge dall’alto a guardare se stesso.

Va ricordato che il valore di Martí nel panteón di Fidel Castro è sicuramente maggiore di qualunque riferimento diretto alla tradizione del comunismo internazionale. Fidel e la Rivoluzione cubana sono stati socialisti dal 1962, comunisti dal 1975, ma martiani lo sono stati sempre. Il processo di avvicinamento all’ideologia marxista è stato lento, dovuto per lo più a circostanze storiche, in primo luogo l’embargo statunitense che ha costretto Cuba ad avvicinarsi all’Unione sovietica. Ma è indubbio che almeno nel primo periodo la Rivoluzione cubana avesse molto meno a che vedere con quella sovietica e con il blocco socialista che non con i non allineati e i movimenti di liberazione del cosiddetto “Terzo Mondo”. E in questo Martí ebbe un’influenza enorme, tanto che quando, da giovanissimo rivoluzionario progressista ma assolutamente non comunista, nel 1953, Fidel Castro diede vita all’assalto della caserma Moncada di Santiago e fu arrestato, dichiarò che il mandante intellettuale di quell’azione era stato proprio il celebre poeta rivoluzionario.

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Verso la fine della nostra visita, assistiamo a un cambio della guardia eseguito da militari delle FAR, e ci allontaniamo per recuperare gli zaini e dirigerci verso la Terminal de Omnibus.

Anche questa volta il viaggio all’Havana ci costa una tenace trattativa, con la quale strappiamo un prezzo di 22 CUC per persona in un camión, che però ha sedili molto più comodi di quello dell’andata, ma anche tanto schiacciati tra loro: siamo costretti a dimenticarci della presenza delle nostre stesse gambe perché tanto non sapremmo dove metterle.

Appena prima di partire, ecco apparire Martín, con il quale avevamo appuntamento al cimitero ma non si era presentato. Il suo viaggio è più breve, va infatti solo a Bayamo, ma è anche molto più scomodo, perché i posti sono finiti e deve stare in piedi. Fin che possiamo godiamo della sua compagnia, poi quando lui ci lascia incominciamo la grande battaglia: provare a dormire, provare a riposarci…

Giorno 9 

Martedì 6 dicembre

Partiti il giorno prima verso le sei e mezza di sera, arriviamo dopo le 8 alla terminal di La Habana. Una chiamata veloce alla vecchia casa particular, e poi di corsa in taxi, con Nino e Gimmi che anelano un bagno come un miraggio nel deserto.

Appena riusciamo a rifocillarci, non pago per tutta la stanchezza accumulata, è Gimmi che spinge per andare subito al mare così da approfittare della giornata, che per ora è nuvolosa ma sembra aprirsi.

Solo che il posto che scegliamo, la spiaggia di Jibacoa, di cui abbiamo sentito parlare per la presenza della barriera corallina, è lontanissimo, e il viaggio è un’ennesima odissea: prima autobus di linea per 22 chilometri, poi un camion talmente stipato che Perez finisce nel sedile anteriore al fianco dell’autista per altri 30 chilometri, e poi in taxi collettivo per l’ultimo tratto.

Arriviamo finalmente alla spiaggia più bella mai vista a Cuba (e non solo): selvaggia, limpidissima, è il Caribe così come si vede nelle cartoline. Unica discontinuità nell’orizzonte è, in lontananza, una ciminiera della cittadina industriale di Santa Cruz, dove c’è una fabbrica di rum, una centrale termoelettrica che fornisce di elettricità l’intero paese e alcune trivelle petrolifere la cui vicenda è alquanto curiosa: invece di procurare a cuba maggiore autonomia energetica, il suo (poco) petrolio è destinato in piccola parte al funzionamento di alcune centrali e in maggior parte all’esportazione. Il problema infatti è che il processo di raffinazione a Cuba è così deficitario che la benzina per le sue meravigliose auto anni ’50 il Paese se la deve procurare tutta dal grande alleato Venezuela.

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Ma torniamo al nostro paradiso terrestre: dopo un meritato bagno rifocillante dopo il tanto viaggiare, ci addentriamo in un bosco, poi di nuovo spiaggia incontaminata, poi di nuovo bosco, e arriviamo così prima a un campeggio popolare (utenza cubana) e poi a una specie di resort (utenza straniera e fastidiosa). La barriera corallina invece ha un'”utenza” (o meglio una fauna) davvero mozzafiato, ma purtroppo l’unico che nella stanchezza dilagante si è fatto lo sbattimento di andarci a nuoto è stato Perez, che è un tale analfabeta della natura che chiedergli di descrivere, con nomi di pesci e piante e un minimo di cognizione di causa, un paesaggio come la barriera corallina, è come chiedere a Fabio Volo di commentare la Divina Commedia.

Quando il sole sparisce all’ora del crepuscolo, torniamo lentamente alla capitale, ma non possiamo nemmeno immaginare che quel giorno La Habana per noi sarebbe stata Miami.

L’obiettivo della serata, dopo una cena, un certo numeri di caffè e un giretto a un bar per locali per qualche mojito, è cercare una festa di reggaeton, di cui soprattutto Gimmi va matto. Al chiedere informazioni, e forse al pretendere troppo di martedì sera, veniamo rimbalzati in vari posti uno più disgustoso dell’altro. L’ultimo, il più disgustoso di tutti, è una discoteca nel quartiere fighetto di Miramar, con i prezzi tutti in dollari, ma con la gente in buona maggioranza inequivocabilmente cubana. Ed è lì che ci rendiamo conto che anche a Cuba, o per lo meno nella Cuba dell’apertura economica del 2016, ci sono i gusanos.

I gusanos, in spagnolo “vermi”, sono quei cubani d’élite che a partire dalla Rivoluzione cominciarono a emigrare negli Stati Uniti. Si trattava di quella parte di popolazione soprattutto de La Habana, rigorosamente bianca, che sotto il regime di Fulgencio Batista aveva approfittato delle sue relazioni con il capitale americano e con la mafia italo-statunitense (Lucky Luciano, ad esempio, era un assiduo frequentatore dell’isola) che proprio nella capitale cubana, e nella sua zona bene del Vedado, avevano costruito un paradiso (o per meglio dire un inferno) di hotel, casinò e prostituzione. Espropriati delle loro seconde e terze case e delle loro terre, questa sorta di aristocrazia mafiosa fu costretta ad andarsene dall’isola. Non a caso proprio al periodo post-rivoluzionario risale e la crescita esponenziale di Miami.

Quella che dapprima era poco più che un paesello, fu presto popolata di cubani dissidenti che, favoriti dalle tutele e dai sussidi degli Stati Uniti, cominciarono a portare avanti un’attività contro-rivoluzionaria (la loro radio venne chiamata, con intento di sfida al regime e ai suoi simboli, Radio Martí). Certo, con il tempo i cubani emigrati a Miami cominciarono a diversificarsi di più: prima, intorno al 1980, cominciarono ad andarsene intellettuali, omosessuali, dissidenti o anche solo critici del regime, che era entrato in quel periodo, con l’avvicinamento all’Unione sovietica di Breznev, in un periodo oscurantista e settario che tutt’oggi viene chiamato dai cubani il “periodo grigio”. Più tardi, con l’avvento del periodo especial nella prima metà degli anni ’90, anche cubani neri e più poveri cominciarono, anche se in gruppi minoritari, a emigrare.

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Ciò nonostante, il grosso dell’emigrazione cubana a Miami, la sua parte influente e politicamente più attiva, sono proprio i ricchi gusanos, che negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi con l’apertura di voli diretti Cuba-Stati Uniti, hanno preso l’abitudine di venire sull’isola a passare le vacanze, oltre che a finanziare con le rimesse i loro parenti, incidendo fortemente sul recente fenomeno di ri-polarizzazione socio-raziale della popolazione isolana.

Insomma, il panorama della serata era il seguente: tutti o quasi bianchi e buttafuori rigorosamente neri, molte Escort, tutti infighettati. Noi, in maglietta sporca e pantaloni corti, veniamo fatti entrare solo con l’intercessione di un brasiliano che ha conosciuto Lucas, ma il nostro disgusto è tale che la serata finisce nel peggiore dei modi: veniamo cacciati in malo modo. Solo un giorno di riflessione collettiva ci farà ricomporre, l’indomani, le ferite di questa esperienza di capitalismo brutale in quella che credevamo essere patria pura del socialismo.

Giorno 10

Mercoledì 7 dicembre

Sveglia tardissimo, recupero delle energie, zombismo per centro Habana e ultimi acquisti e commissioni caratterizzano quest’ultima giornata cubana, che si mette in moto solo dalle 6.30 della sera, quando di fronte al Capitolio, la sede del parlamento, incontriamo BBB, un collega di dottorato di Perez a Città del Messico. Per tutelare la persona daremo poco spazio alla sua interessantissima biografia e molto più alle meravigliose discussioni che ci hanno rallegrato l’ultima sera sull’isola e che, soprattutto, ci hanno fatto vedere alcune questioni da un punto di vista più interno, più complesso e più critico.

La chiacchierata è lunga, intensa e vorace, oleata man mano dalla birra artigianale della Plaza Vieja che BBB ci porta a bere e più rumorosa dopo ogni calice. La sua parlata è vivace, lo ascoltiamo con entusiasmo, incalzandolo continuamente con domande e osservazioni. Iniziamo dalla parte più scottante, il futuro del paese dopo i fratelli Castro, dato che nel 2018 molto probabilmente Raúl lascerà l’incarico. BBB ha il sospetto, se non la certezza, che sarà la fazione di destra del partito a prendere le redini del governo di Cuba, quella neoliberale favorevole all’apertura economica e alle privatizzazioni. Sì, perché può sembrare incredibile ma l’entrata del capitalismo a Cuba non sta avvenendo nella forma di un riformismo più o meno keynesiano, di un temperamento del radicalismo del regime: il capitalismo si sta costruendo le sue enclave nel sistema socialista nella sua forma direttamente rapace, espropriativa e neoliberista.

Un esempio lampante è nelle relazioni capitale-lavoro. Nel 2010, per la prima volta, 50.0000 cubani furono licenziati dal settore pubblico e passarono a lavorare come dipendenti per il nascente settore privato vincolato soprattutto al turismo, ma non solo. Solo che dopo 50 anni di sradicamento pressoché totale del lavoro per privati e di garanzie universali  sul lavoro statale, i nuovi lavoratori non erano più abituati a far fronte alla dinamica conflittuale tipica delle relazioni lavorative capitaliste, entrarono cioè nel mondo del lavoro subordinato in una forma totalmente precarizzata e del tutto privi di diritti, con assenza totale di contratti collettivi. Lo stesso sindacato di regime, l’unico esistente nel Paese (nonostante tecnicamente non sia vietata la creazione di sindacati indipendenti) assunse una forma corporativa d’ispirazione addirittura fascista: lavoratori e padroni insieme, zero lotta di classe ma concertazione sotto la guida del partito. Ma si sa che, quando nella storia lavoratori e datori di lavoro sono stati riuniti nella stessa organizzazione di categoria, quali dei due interessi ha prevalso… È necessario ricordare la risorsa incredibilmente grande che può rappresentare la popolazione cubana in termini (odiosi) di capitale umano per il capitale internazionale: una delle popolazioni più colte del mondo con un tasso di laureati altissimo, ma abituati a salari bassi (rispetto al mercato internazionale).

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Poi divaghiamo trascinati per ore da fiumi di parole, fino a rimanere gli ultimi e unici nella piazza ancora seduti ai tavolini. BBB ci disegna un accurato ritratto dei cubani, un popolo fiero e orgoglioso, di isolani, filibustieri, schiavi e marinai: “i cubani non hanno mai perso una guerra, qui come in tutte le missioni internazionali in Africa (in Algeria, Namibia, Angola, Sudafrica, Etiopia), siamo un popolo abituato a vincere”. Fidel continua a rimanere il protagonista di molte storie: “Fidel era un loco, come tutti i suoi compagni.” In effetti la Rivoluzione cubana è stata combattuta da una manica di giovani appena ventenni (Fidel aveva poco più di trent’anni ed era tra i più vecchi!), inesperti e scanzonati (celebre la simpatia cialtrona e irriverente di Camilo Cienfuegos, che non perdeva occasione di irridere Che Guevara e l’italiano Gino Donè Paro) ma armati di tanto entusiasmo. BBB ci racconta che Fidel era così pazzo che nessuno, Stati Uniti compreso, avrebbe dubitato che durante la crisi dei missili del 1962 potesse dar l’ordine di usarli, e d’altronde “il responsabile dello scoppio delle testate era un diciottenne: secondo voi si sarebbe fatto dei problemi?”. Fidel era un genio della strategia politica e dell’agire simbolico; per restituire agli USA i prigionieri catturati durante la fallita invasione della baia dei porci, il Comandante chiese in cambio tonnellate di omogeneizzati e latte in polvere per i bambini cubani: quale umiliazione per gli imbattibili gringos! Tenne sempre testa alla nazione più potente del mondo, così come anche con la mafia italo-americana che sull’isola faceva il bello e cattivo tempo. Negli anni ’50 tra L’Avana e Varadero c’era il progetto di fare 100 km di casinò, hotel di lusso e parchi divertimenti. Quando la mafia andò a parlare da Fidel per assicurarsi i propri interessi fu “mandada a al carajo”, e per questo il progetto fu spostato su Las Vegas a un prezzo molto più caro.

Quegli anni sono però ormai lontani, e oggi più che mai vede il bisogno di una nuova rivoluzione comunista a Cuba: “spero di aver insegnato all’università a un nuovo Fidel Castro, ce ne sarebbe bisogno”, ci confessa BBB. Lui è molto fiducioso che questo un giorno possa accadere, visto che da anni esiste un gruppo di anarchici, comunisti libertari e troskisti, che si riunisce intorno a una proposta di anticapitalismo democratico, che è influente nell’accademia e sugli studenti ed è sparso in tutto il Paese. Si oppongono alla iper-burocratizzazione, alla chiusura democratica del partito comunista (che ha sempre rifiutato le loro proposte di candidatura, alla successione al potere per nomina e non per scelta popolare, a un’apertura fatta esclusivamente a beneficio del capitale internazionale e non dei diritti sociali e politici dei cubani). Tuttavia – ci confessa – una resistenza organizzata, e una nuova rivoluzione, potranno avvenire solo dopo che il capitalismo, che quando arriva in un primo momento porta sempre alcuni benefici e molte illusioni, avrà rivelato il suo volto peggiore, con l’attacco ai diritti consolidati in ambito educativo e sanitario, per esempio. Lui conosce i giovani cubani, a molti ha insegnato all’università, e li trova sì comprensibilmente delusi dal sistema ma anche brillanti e pieni di iniziativa, e la sua speranza è che i giovani di oggi possano portare Cuba verso un futuro migliore, lontano dalla deriva neoliberale che sta prendendo negli ultimi anni. In ogni caso di una cosa è sicuro: per quanto arriveranno tempi bui certe cose, come l’orgoglio cubano, l’emancipazione della persona costruita dalla Rivoluzione, e un certo attaccamento a diritti consolidati, non verranno debellati facilmente. Cuba è infatti un Paese in cui, per lo meno nelle zone urbane, l’emancipazione della donna e del corpo è anni luce più avanti che altrove in America latina, e dove la stessa prostituzione, qui chiamato jineterismo, diffusissima nell’isola, deve essere vista in una luce diversa, nella maggior parte dei casi come libera scelta individuale, senza padroni né mafie né costrizioni.

A metà serata ci raggiunge anche Raydel, l’amico di Gimmi conosciuto a inizio viaggio, che fornisce altro materiale di conversazione interessante. Ci racconta del suo periodo di leva militare, durato ben due anni – “buttati via” secondo lui -, dove ha imparato a sparare e poco altro. Ci fa ridere rumorosamente quando ci racconta della volta che fu punito per essersi allontanato un attimo dal suo punto di guardia per raccogliere un mango: gli dettero tre giorni di lavoro per tagliare a colpi di machete tre chilometri di campo. Passò le prime due ore del primo giorno di buona lena, poi si guardò le mani gonfie e sanguinanti e decise che non avrebbe più fatto nulla. Passò un mese prima che i suoi superiori si arrendessero all’evidenza che non avrebbe davvero mai svolto il proprio compito e decidessero di rimandarlo con gli altri. BBB solidarizza con Raydel, si compiace sue suo spirito depoliticizzato ma comunque ribelle (e infinitamente curioso, occorre aggiungere) e verso fine serata lo convince a iscriversi all’università, per approfittare di questi ultimi anni di diritti generalizzati per studiare gratuitamente. Gli consiglia di fare come noi, di cercarci borse di studio per studiare all’estero, che è il modo migliore e meno dispendioso per crescere, viaggiare, conoscere. Raydel è entusiasta, e noi lo siamo di tutti loro, di questa gente brillante e divertente, spiritosa e combattiva, di questo popolo che a fronte di tutte le volte che ha provato a incastrarci, che ci ha trattato come turisti da pelare, ci ha anche dimostrato in ogni occasione di essere un popolo libero, forte e determinato, di essere rimasti ancora, nonostante tutte le critiche, le lamentele, le delusioni, lo stesso popolo filibustiere che nel 1600 aggirava e si burlava dei colonizzatori spagnoli, lo stesso popolo ribelle e pazzo che riuscì a vincere una rivoluzione a partire da quattro scoppiati in una foresta equatoriale, lo stesso popolo che, nel bene e nel male, ha costruito il socialismo reale più vivace, più sperimentale, più frizzante, più caraibico, più irriverente, più umano che questo ‘900 che ora è definitivamente finito ci lascia in eredità. Noi nella notte alle 5.50 abbiamo il volo per Città del Messico, ma questo è solo un arrivederci.

¡Hasta pronto, Cuba! 

¡Fidel vive, la lucha sigue!

¡Hasta siempre siglo XX!

¡Hasta la victoria, siempre!

 

 

 

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