Inflazione in crescita, licenziamenti e un pacchetto di riforme che nasconde tagli e precarizzazioni, torna il ricordo della crisi del 2001.
di Susanna De Guio
Più di 300 mila persone hanno manifestato a Buenos Aires lo scorso 14 dicembre contro la riforma delle pensioni, e la notizia ha varcato i confini nazionali per la sua imponenza e per la brutale repressione che l’ha seguita, specialmente dopo che la sessione di voto è stata sospesa. Il 18 dicembre la piazza di fronte al Congresso della Nazione strabordava nuovamente striscioni, tamburi e slogan: “unità dei lavoratori” era il più urlato “e a chi non piace, che si fotta!”. La mobilitazione è riuscita a mettere in difficoltà la polizia di Buenos Aires, ad aprire un varco tra le barriere che blindavano l’edificio del Congresso, a interrompere di nuovo la sessione parlamentare. E di nuovo la selvaggia caccia all’uomo da parte delle diverse forze di polizia dispiegate ha prodotto uno scenario di guerra, con più di 80 arresti e centinaia di feriti. Tre manifestanti hanno perso un occhio per gli spari della polizia all’altezza del viso, un ragazzo di 19 anni è stato portato in condizioni gravi in ospedale, tre persone sono tutt’ora in carcere. Ma la gente non si è fermata, è tornata a occupare le strade durante la serata e la notte in tutto il Paese, a bloccare gli incroci con le cacerolas, le pentole usate come tamburi che hanno contraddistinto l’indignazione e la protesta degli argentini nel 2001.

In tanti hanno ricordato quel dicembre di 16 anni fa, in cui il crescere delle proteste contro la profonda crisi economica portarono alla dichiarazione dello stato d’emergenza e la rinuncia del governo, 39 morti in piazza e il cambio di 5 presidenti in meno di due settimane. È da allora che non si percepiva un livello così alto di repressione da parte di polizia e gendarmeria, e che non tornava a presentarsi in maniera così consistente l’incubo della recessione, con un aumento spropositato e costante dei prezzi, della disoccupazione, della povertà. Il governo ha cambiato marcia dopo le elezioni legislative di ottobre, che gli hanno confermato la maggioranza in parlamento, ma aveva già cominciato a esibire la totale impunità con cui agisce a inizio agosto, con l’omicidio e la sparizione forzata di Santiago Maldonado, l’attivista a sostegno del popolo mapuche il cui volto ha fatto il giro del mondo.

La riforma delle pensioni è stata approvata infine dopo 17 ore di dibattito, il cambio della formula che calcola l’adeguamento previdenziale permette allo Stato di sottrarre agli strati sociali più poveri circa 100 milioni di pesos (5 miliardi di euro), che andranno a compensare la quota scontata alle imprese nella contribuzione previdenziale e la riduzione delle imposte sul profitto, in un Paese in cui l’inflazione sta crescendo a un ritmo del 25% annuo. Il carattere classista della norma è sfacciato oltre che evidente, e si comprende meglio se messo in relazione con le richieste del Fondo Monetario Internazionale: l’Argentina deve ridurre il suo deficit fiscale per ottenere sovranità economico-finanziaria, e il governo di Macri, rinegoziando i fondi “buitre”, ha contratto un debito senza precedenti nella storia del Paese.
Per ripianare il debito è stato presentato un pacchetto di riforme che coinvolge anche i contratti di lavoro e il sistema tributario, e la fretta di cominciare ad attuarlo ha portato il governo a convocare sessioni straordinarie delle camere durante il mese di dicembre. L’anno nuovo si è aperto con una nuova ondata di licenziamenti tra i lavoratori dei media pubblici e gli insegnanti, e con l’annuncio di nuovi rincari sul trasporto pubblico, la luce e il gas, mentre si prepara la riforma del lavoro per marzo, e infine vengono concessi gli arresti domiciliari al genocida Miguel Etchecolatz, responsabile della polizia provinciale di Buenos Aires durante la dittatura e già condannato all’ergastolo per crimini di lesa umanità.

Quest’anno le feste sono arrivate con l’amaro in bocca. Il governo è riuscito ad avanzare nel suo obiettivo più impopolare, ma ad un costo molto alto: ha dimostrato ai mercati stranieri che sa usare la mano dura, ma ha bruciato una buona parte della sua autorevolezza politica quando mancano ancora due anni di mandato e diverse altre riforme affamanti da far passare. D’altro canto questo dicembre di lotta, di limoni e pietre nelle strade, ha rappresentato una prima volta per la generazione più giovane, accompagnata però dall’esperienza e l’organizzazione di tutti quelli che negli anni Novanta e nel 2001 c’erano. I lavoratori, le organizzazioni sociali e sindacali, i movimenti e i partiti si sono ritrovati insieme in strada, e hanno dimostrato di essere preparati, di conoscere il linguaggio della repressione ed essere all’altezza, di reggere lo scontro. Nei prossimi mesi si giocano in Argentina le relazioni di forza tra il governo neoliberista di Macri e gli eredi di quell’insurrezione che nel 2001 pretendeva “que se vayan todos”, che se ne vadano tutti i politici, le istituzioni, i rappresentanti di un modello democratico fallimentare che nasconde gli interessi dei grandi capitali.

