
di Decio Machado da Nueva Sociedad
Commento di Daniele Benzi
Traduzione di Alice Fanti, Alessandro Peregalli e Manuela Loi
In un clima di incertezza dovuto al Covid-19, lo scorso 7 febbraio si sono celebrate le elezioni presidenziali in Ecuador. Contrariamente alle aspettative, l’affluenza alle urne è stata elevata e i risultati alquanto inattesi. Proponiamo un commento a caldo di Decio Machado pubblicato da Nueva Sociedad che ci offre un resoconto conciso ma impeccabile della situazione. In queste ore, tuttavia, lo spettro di possibili brogli da parte dell’autorità responsabile del processo elettorale per favorire il passaggio al secondo turno del candidato dell’oligarchia finanziaria Guillermo Lasso, a scapito del candidato del partito indigenista Pachakutic Yaku Pérez, contro il correista Andrés Arauz il prossimo 11 aprile, rendono l’atmosfera ancora più incerta e tesa della vigilia.
Decio Machado è un sociologo, giornalista, consulente politico ed esperto in comunicazione che vive in Ecuador da molti anni. È cofondatore di diversi progetti editoriali alternativi tra cui la storica rivista spagnola Diagonal e più recentemente di Ecuador Today. Membro dell’Universidad Nómada del Sur, coordina seminari critici di geopolitica in America Latina. Insieme a Raúl Zibechi, nel 2016 ha pubblicato il libro Cambiar el mundo desde arriba. Los límites del progresismo. [Daniele Benzi]
Il correismo, rappresentato da Andrés Arauz, ha vinto al primo turno delle elezioni ecuadoriane, ma non è riuscito a evitare il ballottaggio. Il conservatore Guillermo Lasso e il dirigente indigeno Yaku Pérez si stanno disputando, un voto alla volta, il passaggio al secondo turno dell’11 aprile. Sconfitto nella Sierra, dove i settori popolari sono più organizzati, e con il suo zoccolo duro elettorale nella Costa, Arauz parrebbe avere più possibilità di vittoria contro il “banchiere dell’Opus Dei” che contro il candidato di Pachakutik.
Il 7 febbraio, l’Ecuador ha assistito a uno dei processi elettorali più inusuali della sua storia. Inusuale a causa della pandemia, inusuale perché si doveva scegliere tra sedici tandem elettorali per la Presidenza della Repubblica e inusuale anche per i costanti rumori di possibili brogli elettorali che hanno animato i social network nell’ultima settimana.
I tre anni e otto mesi di governo di Lenín Moreno hanno lasciato il paese sfinito. Nel sentire generale della società ecuadoriana, c’è la speranza che questo periodo finisca quanto prima e che si consegnino i pieni poteri governativi al nuovo assegnatario. In parallelo, assistiamo a una silenziosa fuga dal paese di coloro che hanno preso le decisioni in questo stesso periodo: tra i vari, sia Richard Martínez, ex Ministro delle Finanze e artefice degli accordi con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che María Paula Romo, ex Ministra del Governo e principale responsabile della repressione nelle manifestazioni dell’ottobre 2019, sono oggi residenti a Washington.
L’Ecuador soffre del deterioramento generalizzato di pressoché tutti gli indicatori sociali, sia macro che microeconomici, e della credibilità delle istituzioni pubbliche. In un quadro nel quale il divario tra establishment politico e società è sempre più ampio, cresce in modo esponenziale la povertà, l’accattonaggio minorile, l’abbandono scolastico, i suicidi, l’indebitamento famigliare, l’insicurezza civica, il deterioramento del mercato del lavoro, la disoccupazione, l’indebitamento esterno e il discredito delle istituzioni. Nonostante questo processo fosse già in corso, le condizioni sono diventate drammatiche a causa dell’impatto della pandemia da COVID-19. Forse la conseguenza più brutale di tutto questo sono state le oltre 40.000 morti nel 2020, molto al di sopra della media dei decessi degli anni precedenti.
È in questo contesto che le due principali tendenze politiche ad oggi esistenti nel paese hanno definito le proprie strategie elettorali. Da un lato, l’opzione correista guidata da Andrés Arauz – dato che a Rafael Correa era legalmente proibito candidarsi – che ha scelto come narrativa principale “il ritorno della speranza” nel paese o che invita “semplicemente a paragonare il precedente governo con quello attuale e pensare a quando stavamo meglio”. Dall’altro lato, il conservatorismo capeggiato da Guillermo Lasso – in coalizione con il Partito Sociale Cristiano (PSC) di Jaime Nebot – che cerca di sottolineare come Lenín Moreno sia stato in origine il candidato appoggiato da Rafael Correa e che rappresenti pertanto un simbolo della continuità. Tutto ciò nonostante la svolta verso posizioni politiche neoliberali dell’attuale governo si sostenesse proprio con l’appoggio dei gruppi parlamentari di Lasso e Nebot nell’Assemblea Nazionale. In sintesi, la sfaldatura politica elettorale si posizionava tra – a priori – le due grandi tendenze ideologiche del correismo contro l’anticorreismo, una polarizzazione che ha giovato a entrambe le tendenze.
Senza polarizzazione
In questo contesto, dei quattordici tandem presidenziali che accompagnavano le due principiali fazioni politiche in lotta, ce ne sono stati due in grado di imporre delle tendenze alternative. Da un lato, la candidatura social-liberale di Xavier Hervas sul fronte della Sinistra Democratica (ID), un partito in picchiata da molti anni e, dall’altro, il braccio politico del movimento indigeno, il movimento Pachakutik con Yaku Pérez come candidato, attivista ambientalista ed ex prefetto de Azuay.
Mentre Hervas, giovane imprenditore dell’agribusiness, si è posizionato come il candidato outsider di questa contesa, rappresentando “il nuovo” con una strategia comunicativa molto creativa e spigliata che è riuscita a raggiungere target di giovani urbani e settori istruiti della classe media, Pérez ha capitalizzato il patrimonio delle manifestazioni dell’ottobre 2019 –episodio di lotta sociale brutalmente represso dagli apparati di sicurezza dello Stato– e della difesa della Pachamama, insieme al rifiuto per il correismo in diverse zone andine, grazie alla sua opposizione alle politiche estrattive e alla difesa dell’acqua. Grazie a ciò, il candidato indigeno è entrato in sintonia anche con i giovani, in questo caso con una sensibilità ambientale, e con settori urbani marginalizzati che, soprattutto a Quito, si sono mobilitati insieme ai gruppi indigeni. “Yaku è il popolo” è stato lo slogan costruito intorno alla figura del rappresentante indigeno durante la campagna.
Queste strategie alternative si sono piano piano fatte spazio nella società ecuadoriana, arrivando a generare un nutrito e silenzioso aumento del consenso a alle nuove leadership. Tutto ciò mentre un “banchiere dell’Opus Dei e del feriado bancario [del 1999]” come Guillermo Lasso si contendeva la partita a un livello superiore con Andrés Arauz, il “candidato del bolivarianismo chavista appoggiato dai gruppi terroristi colombiani come le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e l’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale)”. Così si screditavano le une con le altre queste due fazioni politiche in competizione.
Il correismo dovrà senza dubbio fare un aggiustamento di conti interno dopo questo primo turno. Ogni strategia elettorale parte da un’analisi del contesto. La realtà dimostra che la campagna di Arauz si è basata su dei sondaggi errati, insistendo negli ultimi quindici giorni sul fatto che avrebbero vinto al primo turno, risultato per il quale avevano bisogno di raggiungere il 40% ed ottenere dieci punti di differenza sul secondo candidato. E, di conseguenza, si sono posizionati pubblicamente con la solita arroganza che viene dal sentirsi vincitori in anticipo, senza fare cenni politici a nessun settore al di là della loro “tifoseria agguerrita”.
Parallelamente, e tenendo conto che i messaggi all’elettorato costituiscono il 50% di una strategia elettorale, la campagna di Lasso non avrebbe potuto essere più confusa e disperatamente disorganizzata. Ha iniziato promettendo un milione di posti di lavoro e ha finito per impegnarsi a raddoppiare la sua proposta iniziale, aggiungendo solo nell’ultima settimana della campagna due delle sue principali promesse: vaccinare nove milioni di ecuadoriani nei primi cento giorni del suo governo e aumentare il salario minimo -che negli ultimi sette anni non ha smesso di considerare eccessivo- del 20%. Nessuna di queste proposte faceva parte del suo programma iniziale.

Risultati e prospettive
Mentre viene scritto questo articolo, il conteggio ufficiale indica che il maggior sostegno popolare in questo primo turno è andato al candidato correista. Arauz ha circa il 32% dei voti validi. Al secondo posto, Pérez e Lasso combattono voto a voto, entrambi con circa il 19% e con una differenza di pochi decimi, inizialmente a favore del candidato indigeno. Infine, al quarto posto ci sarebbe Hervas con un sorprendente 16%.
Nonostante il conteggio sia molto avanti, circa il 14% delle schede presenta incongruenze, soprattutto nei seggi elettorali della costa, una regione nella quale Lasso ha più sostegno di Pérez. Qui apro una parentesi: sia il populismo progressista che quello conservatore hanno avuto storicamente più seguito nella regione costiera del paese rispetto ai territori della Sierra e dell’Amazzonia, caratterizzati da una maggiore presenza indigena, una maggiore densità organizzativa popolare e una cosmovisione più lontana dal clientelismo politico. In ogni caso, questo presuppone che alla fine Lasso potrebbe prevalere su Yaku Pérez e arrivare al secondo turno, l’alternativa indubbiamente preferita da parte del correismo, che cerca di presentare la contesa in base alla narrazione classica popolo contro oligarchia, cosa che non potrebbe fare con il rappresentante di Pachakutik.
Le spade sono incrociate e il movimento indigeno rimane in allerta e in attesa. È molto probabile che vedremo forti mobilitazioni di questo settore in difesa del voto, il cui risultato è una pietra miliare storica senza precedenti nella politica ecuadoriana. Tuttavia, il conflitto interno all’indigenismo è assicurato se Lasso andrà al secondo turno l’11 aprile. Infatti Pérez, difficilmente inquadrabile in una visione ideologica classica nonostante provenga da una militanza giovanile maoista, ha sostenuto Guillermo Lasso al secondo turno delle elezioni presidenziali del 2017 contro la candidatura di Lenín Moreno, che in quel momento si pensava identificato con Correa. La sua giustificazione allora fu: “un banchiere è preferibile a una dittatura, che ci ha spogliato dei nostri territori, che ha dichiarato lo stato d’eccezione…”.
Con Yaku Pérez al secondo turno e senza la necessità di dover negoziare con i settori conservatori -la maggior parte del voto non correista andrebbe a questa opzione senza bisogno di accordi politici, e lo stesso Lasso ha detto che voterebbe per lui– Arauz avrebbe più difficoltà ad aggiungere voti a quelli già ottenuti domenica scorsa. Allo stesso tempo, il maggior gruppo parlamentare sarà di tendenza correista, che probabilmente otterrà 49 seggi sui 137 dell’Assemblea Nazionale, cioè senza maggioranza assoluta. In un ipotetico governo Arauz il suo movimento non avrebbe la maggioranza, per cui dovrebbe negoziare con le altre due principali forze parlamentari: Pachakutik, con circa 27 seggi, e Sinistra Democratica con 18, entrambe tendenze politiche non conservatrici.
In sintesi, le grandi sconfitte di questa domenica sono state la destra e le élite sociali ed economiche ecuadoriane. Ma allo stesso tempo, il popolo ha espresso il desiderio di rompere la dicotomia correismo/anticorreismo che ha marcato gli ultimi quattordici anni di politica nazionale. La società ecuadoriana esige una rigenerazione della sua leadership e della sua rappresentanza, così come un discorso politico differente per i prossimi anni.
L’ipotesi di una vittoria di Lasso al secondo turno sembra poco probabile. Né i giovani, che sono la maggioranza degli elettori, né il mondo rurale si sentono identificati con questo candidato che partecipa alle elezioni presidenziali per la terza volta. Allo stesso tempo, la tendenza conservatrice con prevalenza nella regione della Costa, il PSC, ha ottenuto il peggior risultato della sua storia in molti di quelli che fino a questo momento erano considerati suoi feudi territoriali. Né Lasso né Nebot presentano il profilo per continuare a guidare la destra ecuadoriana.
Allo stesso tempo è difficile immaginare una sopravvivenza del correismo senza la figura di Rafael Correa al potere o, almeno, occupando un incarico di rappresentanza popolare. Lo scenario più probabile è che il progressismo ecuadoriano entri in un processo di rinnovamento, forse guidato da Arauz -un giovane 36enne ex ministro di Correa-, più legato a posizioni ideologiche che all’elogio della figura del suo leader carismatico. Se ciò accadesse, genererebbe inevitabilmente forti tensioni interne, che in un modo o nell’altro sono già emerse durante l’attuale campagna. In quest’ultima, infatti, la questione della lealtà e del tradimento è stata sempre presente. In ogni caso, oggi Arauz dipende da Correa per vincere le elezioni, così come domani sarà Correa a dipendere da Arauz per risolvere i processi giudiziari ai quali è stato sottoposto, in molti casi in modo estremamente forzato, durante questi quasi quattro anni di residenza fuori dal paese. Ancora in attesa di vedere chi si disputerà il ballottaggio dell’11 aprile e quale sarà il risultato, il voto del 7 febbraio ha segnato probabilmente un punto di svolta nella storia recente dell’Ecuador. Assisteremo alla configurazione di una nuova cartografia politica nazionale nei prossimi due anni, una domanda sociale che è stata chiaramente espressa dal voto.
Infine, resta da vedere come il movimento indigena si comporterà nei ruoli istituzionali. La sua storia recente, plasmata dalla rivolta dell’Inty Raymi del 1990, rivela che il suo potenziale ha più a che fare con il mondo dei movimenti sociali e dell’organizzazione comunitaria che con la rappresentanza elettorale. L’ultima volta che il Pachakutik ha partecipato come alleato di un governo nazionale, quello di Lucio Gutiérrez, è scivolato in una grave crisi dalla quale ha impiegato anni per riprendersi.