Ucraina-Messico

Qualche giorno fa c’è stato un ottimo evento sulla guerra in Ucraina presso l’Università Iberoamericana di León, Messico, che poi è anche l’ateneo in cui lavoro come ricercatore e docente da sei anni. Gli interventi, presentati da tre accademici messicani, esperti di relazioni internazionali, economia, filosofia e storia, si sono concentrati rispettivamente sugli aspetti geopolitici, poi su quelli economici e strategici, e infine sulla questione umanitaria ed etica del conflitto.

Uso l’aggettivo “ottimo” per descriverlo dato che le posizioni espresse sarebbero state considerate piuttosto eterodosse nel contesto del dibattito italiano ed europeo, che può apparire rarefatto, “preconfezionato” o stirato su posizioni acriticamente atlantiste agli osservatori d’oltreoceano latinoamericani.

Da una parte, in termini geopolitici ed economici nel panel è prevalsa la denuncia dell’accerchiamento progressivo della Nato nei confronti della Russia e le linee storiche della relazione URSS/Russia-Ucraina che spiegano, almeno in parte, le ragioni dell’attacco russo e la “guerra per procura” che l’Alleanza e gli Stati Uniti stanno conducendo tramite l’invio massiccio di armi, le sanzioni e il sostegno dell’intelligence.

Sono ragioni che non giustificano l’invasione russa, i crimini di guerra e le gravi violazioni ai diritti umani in corso, ma che devono essere comprese e contestualizzate per aprire vie d’uscita che non siano l’annichilamento totale dell’avversario. Il discorso vale per entrambe le parti ed è preoccupante, in questo senso, la graduale e violenta chiusura al riconoscimento “dell’altro” e dell’alterità in un contesto di crescente polarizzazione Occidente/Oriente, Civiltà/Barbarie. A quasi 3 mesi dallo scoppio del conflitto abbiamo preso atto della sospensione del dialogo tra i belligeranti e la debolezza degli scarsi canali diplomatici, ridottisi a delle chiamate tra i ministri degli esteri USA e russo, ai tour del Segretario Generale ONU e ai tentativi di Macron ed Erdogan.

Dall’altra, in termini di etica e di crisi umanitaria, l’antimilitarismo, quindi l’idea che si stia foraggiando la guerra “by proxy” più che la autodifesa ucraina con l’invio di armi, e la tendenza pacifista, per cui la ricerca di una mediazione e il riconoscimento dell’interlocutore devono mantenersi come priorità assoluta per un immediato cessate il fuoco, hanno caratterizzato l’ultima relazione presentata nel panel messicano. Una posizione vicina anche a qualle di Papa Francesco e di buona parte del movimento pacifista italiano che ha occupato le strade e le piazze in questi giorni e settimane.

Tornando al prisma d’osservazione bianco-nero, dicotomico e poco funzionale alla comprensione e all’avvicinamento delle parti, la stigmatizzazione dell’alterità, la rappresentazione colonialista dell’altro, che lo rende “inferiore” o “barbaro”, è una questione particolarmente delicata all’interno del dibattito storico e politico dei paesi latinoamericani, che sono e sono stati oggetto di stereotipi e semplificazioni enormi per secoli. O almeno lo è per quella parte che fa del pensiero decoloniale e critico la sua bussola e che denuncia gli opposti fini espansionistici di Russia e Stati Uniti, ma anche della Cina ed altre potenze, senza appannamenti ideologici.

Il dibatto tra le mura universitarie ha cercato di uscire dallo schema atlantista tout court, prevalente in generale anche in terra azteca tra i media del mainstream, per esplorare scenari e aprire discussioni non manichee sul ruolo di Putin, della Russia, dell’Oriente e del cosiddetto Occidente, concetti, questi, costruiti, ricostruiti e spesso manipolati e distorti all’occorrenza.

Sebbene in Messico la guerra non sia trattata come “il tema centrale” dell’agenda politica e mediatica, concentrata sugli affari interni, sui viaggi del presidente messicano Obrador in Centroamerica e Cuba, sui temi migratori e sulla relazione bilaterale con Biden, resta uno dei problemi con presenza fissa e comunque importante, soprattutto per le implicazioni legate all’economia e per la relazioni strette e inevitabili del Paese con il vicino statunitense, tra cooperazione inevitabile e sana distanza.

Inoltre svariuate migliaia di cittadini ucraini si trovano a Tijuana e in altre città frontaliere e sono aumentate le tensioni in materia di migrazione, altro punto fisso dell’agenda USA-Messico, e in relazione alle masse di migranti non-ucraini, per esempio gli haitiani e i centroamericani, che non hanno accesso alle quote d’ingresso e ai visti americani concessi a chi scappa dalla guerra. L’ambascita ucraina a Città del Messico s’e’ mostrata critica nei confronti del governo locale che non ha imposto sanzioni all’invasore e s’e’ astenuto, insieme ad altri 57 paesi, dal votare l’espulsione della Russia dal Comitato per i Diritti Umani all’ONU.

Con un certa dose di equilibrismo, ma anche di distanziamento simbolico e politico dall’americanismo atlantista puro, il governo di López Obrador mantiene una posizione basata sulla dottrina Estrada, che fa parte della tradizione diplomatica messicana e privilegia la non ingerenza, l’autodeterminazione dei popoli e la neutralità riguardo i conflitti e gli affari interni degli altri paesi. Può sembrare strumentale o costituire una giustificazione per “smarcarsi”, ma la dottrina fa parte di un bagaglio diplomatico latinoamericano, ereditato dal secolo XX ma vigente, di cui fa parte anche la dottrina Calvo, e permette al Messico un certo margine di manovra, almeno in termini retorici: per esempio il 6 maggio scorso il Messico e la Norvegia hanno elaborato una dichiarazione ufficiale, approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU all’unanimità, quindi anche con il voto della Russia, in cui per la prima volta non si parla di guerra ma di pace e si esprime la preoccupazione per la situazione in Ucraina e l’obbligo di risolvere le dispute internazionali in modo pacifico.

Di Fabrizio Lorusso dal Blog Río Bravo L’Espresso

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