di Silvia Rivera Cusicanqui da Desde Abajo
Traduzione di Alice Fanti
Per capire cosa sta succedendo in questo momento in Bolivia, è fondamentale comprendere il processo di crescente disgregazione e lo svilimento che, durante i governi di Morales, hanno subìto i cosiddetti movimenti sociali – che sono stati inizialmente la base elettorale del Presidente – per mano di una sinistra che si è posta come unica alternativa e non ha lasciato spazio all’autonomia.
È una storia iniziata indicativamente tra il 2009 e il 2010, quando è stata costituita un’altra forma di governo, un’altra forma di Stato, diversa da quella che veniva proposta dalla base. Si tratta di uno Stato sempre più autoritario che tende a monopolizzare il potere senza lasciare nessun margine di autonomia alle organizzazioni.
Tale processo ha pregiudicato la relazione del governo con i movimenti sociali. Nel 2010, questo malessere è serpeggiato nelle associazioni indigene che hanno scelto di assumere una posizione autonoma e chiesto un tavolo di dialogo all’interno del summit di Tiquipaya, incontro con cui l’apparato ufficiale intendeva dimostrare come Evo Morales fosse rispettoso della Madre Terra e favorevole ai diritti indigeni. In quel contesto, uno dei tavoli di lavoro avrebbe dovuto affrontare i temi dell’Integrazione Regionale Sudamericana (IIRSA) e della contaminazione causata dall’estrazione mineraria, ma il governo si è rifiutato di affrontare questi temi. Si prevedeva di parlare dell’inquinamento dei campi e delle acque irrigue che stava già causando, soprattutto a Potosí, Oruro e Huanuni, gravi problemi che si andavano sommando alla drammatica scomparsa del lago Poopó, il secondo più grande del paese.
Ovviamente, si tratta di fenomeni le cui radici affondano nel passato, ma che sono stati accelerati dall’intensificazione dell’estrazione mineraria. Questo processo ha portato alla distruzione del concetto di Terre Comunitarie d’Origine (TCO), che fu a suo tempo la base dell’autonomia indigena. Alla fine del 2010 è stato emanato un decreto che ha sancito che quelle terre indigene, oltre che “originarie”, sono “contadine”, lasciando ai cocaleros (coltviatori di coca, NdT) il permesso di invadere parchi nazionali, come nel caso del Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure (TIPNIS). Successivamente è stato firmato un accordo di finanziamento, intriso di corruzione, con l’impresa brasiliana OAS per la costruzione di una strada in quello stesso parco. Si potrebbe approfondire molto rispetto a quel particolare episodio, ma è importante ricordare come il governo abbia preferito reprimere le popolazioni indigene del parco e favorire l’invasione di coca e la costruzione di quella strada.
Quello è stato il momento di rottura. Da allora e nel 2013, il governo ha dato indicazioni di cooptare la sede del Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (CONAMAQ, un’organizzazione delle nazionalità e dei popoli indigeni della regione andina, costituita nel 1997, NdT) e ha imposto Hilarión Mamani, un imprenditore minerario, come dirigente, andando contro le procedure indigene di rotazione delle autorità locali.
È un processo lungo, in corso da molti anni e che vede tra le sue ultime dimostrazioni l’incendio della Chiquitanía (si veda “La otra frontera”, Brecha, 30 agosto 2019), che ha le sue origini in un decreto governativo che incoraggiava l’invasione di questo ecosistema unico da parte di coloni provenienti dall’occidente del paese. Già lo scorso anno il governo si era avvicinato molto agli allevatori con l’idea di esportare carne in Cina. Naturalmente, bruciare il bosco, come consente il decreto, è molto più economico che portare trattori o ruspe. Con la siccità che c’è in Chiquitanía, il fuoco è sfuggito loro di mano. È stata una tragedia senza pari e il più grande detonatore della débâcle di Evo Morales.
Luis Fernando Camacho e la destra da lui capeggiata stanno vivendo un momento d’oro grazie al fatto di essere riusciti a mettere insieme rimostranze diverse nei confronti del MAS (Movimiento al Socialismo, il partito di Morales, NdT). Tuttavia, la questione più problematica, quella dell’accaparramento della terra e dell’avanzata della frontiera agricola, si è chiusa con un pareggio tra la destra ed Evo Morales. La destra non demolirà questo accordo, non consegnerà agli indigeni la terra che Evo Morales ha sottratto loro e anzi, con l’euforia momentanea di queste ore, sta gettando le basi per il consolidamento dell’economia della soia e dell’agribusiness, già cominciato con Evo.
Si sta avvicinando un momento di grande incertezza, di fragilità istituzionale, sabotaggio e speculazione economica. I membri del MAS cercheranno di lasciare un paese in rovina per poi tornare trionfanti. È stato un gravissimo errore della classe politica fare a meno del MAS e dipingere il governo come illegale. Questo governo di transizione che ora si è impossessato del paese nasce zoppo e monco, non è legittimo. Non si può cancellare con un tratto di penna il 40% dell’elettorato. Un conto è riconoscere i difetti del governo Morales, un altro è non ammettere che il MAS ha, nei fatti, un suo elettorato e ha avuto un ruolo simbolico importante nel dare dignità alla questione indigena.
Ed è qui che è caduta tutta la classe politica, non solo Evo Morales. C’è un vuoto di potere perché la gente non ha ancora riconosciuto la propria energia, la propria forza organizzativa. Purtroppo abbiamo perso molti anni litigando per il controllo corporativistico dei movimenti e delle organizzazioni sociali, restando fuori combattimento ora che la destra sta alzando la testa e l’esercito continua imperterrito nei suoi affari e nelle sue imprese criminose e corrotte. Siamo in una situazione molto critica.
Nonostante tutto, in questi ultimi anni c’è stato un riconoscimento e un autoriconoscimento degli indigeni come forza morale. Sebbene, fino ad un certo momento, la questione indigena sia stata svilita dal governo del MAS, nella vita quotidiana se ne riconosce il valore in relazione alla lingua, al cibo, alla cultura e alle forme comunitarie e solidali. Una serie di collettivi sta esibendo la whipala (bandiera quadrata multicolore che rappresenta le popolazioni indigene, NdT) per chiarire che non si tornerà indietro di 17 anni. Camacho si è spostato nel vecchio palazzo del governo, come a ribadire che questo processo di riconoscimento e autoriconoscimento non è mai avvenuto, nel tentativo di nascondere il sole con un dito. Ma non si può tornare indietro. È invece una necessità imperiosa reindirizzare le mobilitazioni popolari, privandole di quelle forti componenti di misoginia e autoritarismo incoraggiate dal governo del MAS. La negazione della democrazia orizzontale delle organizzazioni e il loro svilimento ci stanno adesso presentando il conto, un conto che si chiama paralisi e stordimento.
Nel bel mezzo di tutto questo, nella lotta contro tutto questo, noi donne siamo in prima fila con il pensiero e l’azione. E anche il dolore che tutta questa situazione ci causa. Noi donne siamo ovunque, mettiamo insieme forme locali di democrazia e ci prodighiamo affinché l’idea di indignazione, l’idea di assemblea, l’idea di Parlamento delle Donne si propaghi in mille parlamenti e mille assemblee, così da poterci esprimere su quale paese vogliamo, che cosa sia la democrazia, che cosa significhi essere indigena. Essere indigena significa indossare il poncho e organizzare una sbornia colossale? Noi, nella nostra posizione di donne, pensiamo di no. In molti collettivi abbiamo creato una sorta di piattaforma per fare di ogni angolo uno spazio di decisione.
Ci baseremo sulla Costituzione, una Costituzione che è stata maltrattata dallo stesso governo del MAS. Adesso ci battiamo in difesa della Costituzione, in difesa della whipala, in difesa della democrazia comunitaria degli ayllus (comunità tradizionali proprie dei popoli originari della regione andina, NdE), in difesa delle donne.
Silvia Rivera Cusicanqui è storiografa e sociologa boliviana, specializzata in cosmologia Quechua.