L’«esplosione sociale» in Cile. Uno sguardo storico

di Gabriel Salazar Vergara da Rebelion

traduzione di Alice Fanti

Mancava solo una scintilla (una scintilla qualunque) che, scaldando i nervi degli adolescenti del Cile, che stanno dimostrando più sensibilità storica e irritabilità politica di qualsiasi altro settore della società, facesse esplodere tutto. Questa scintilla è arrivata con l’aumento dei costi della metro e con la repressione attuata contro il movimento a seguito dell’“evasione di massa”.

Dal 18 ottobre, Santiago e il resto del Cile sono scossi da una massiccia protesta sociale in cui grandi settori del ceto medio e delle classi popolari si sono uniti nel manifestare il proprio rifiuto al modello neoliberista vigente. La protesta è sfociata in grandi marce, numerosi “caceroleos” [forme di protesta pacifica in cui i manifestanti creano rumore percuotendo oggetti quali padelle, casseruole, pentole, N.d.T] e ingenti danni, saccheggi e incendi a stazioni della metro, supermercati ed empori, creando preoccupazione nell’opinione pubblica nazionale e internazionale.

Indubbiamente, si tratta dell’“esplosione sociale” più estesa, violenta e importante che il paese abbia vissuto in tutta la sua storia. E l’unica, inoltre, che fino ad ora non abbia dato luogo a una sanguinosa repressione da parte dei corpi di polizia e militari dello Stato. Date queste caratteristiche, si rende necessario enunciare alcuni minimi cenni storici per descriverne la specificità politica e i possibili sviluppi.

1. Si consideri che in Cile, dal 1973, è stato imposto, attraverso la violenza estrema, un modello neoliberista “da laboratorio” al fine strategico di dimostrare, in tempo di Guerra Fredda, che l’economia di mercato poteva generare “sviluppo socio-economico” e non solo “sottosviluppo” come nel Terzo Mondo nei decenni ‘60 e ‘70.

Con questi obiettivi, si approvò la Costituzione del 1980 (illegittima), si applicò il modello neoliberista ideato dall’Università di Chicago, si consentì libera entrata al grande capitale finanziario internazionale e, attraverso la riattivazione economica prodotta da questo capitale, il Cile, per il suo pragmatismo, venne ammesso all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Per salvare questo modello il generale Augusto Pinochet venne tolto dal comando generale del processo (era disfunzionale) e la vecchia classe politica cilena accettò di amministrare l’eredità ricevuta come premio per aver negato la propria lealtà al socialismo o allo statalismo.

Il rifiuto della popolazione alla dittatura militare, alla cosiddetta “transizione democratica” e al governo guidato, a partire dal 1990, dal presidente Patricio Aylwin fu immediato e, anzi, crescente. Nel 1991 un’indagine pubblica promossa dall’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) dimostrò che il 54% dei cileni adulti rifiutava e non credeva o non aveva fiducia né nello Stato né nei partiti e men che meno nei politici. Questa cifra è cresciuta costantemente da allora ed è arrivata, tra il 2017 e il 2019, a livelli che fluttuavano tra l’80% e il 95%. In altre parole, oltre alla crisi per essere nato in maniera illegittima, il modello neoliberista cileno visse anche una crisi di rappresentatività che arrivò ad essere quasi assoluta. Si creò come una “bombola” che avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro se non le avessero installato delle valvole di sfogo efficienti. Alla fine, lo scoppio c’è stato lo scorso weekend.

2. Per decenni (1938-1973), lo Stato e le grandi università cilene hanno svolto un ruolo di ricerca, programmazione e centralizzazione delle politiche di sviluppo. Ciò ha reso lo Stato e il sistema dei partiti una grande macchina patriarcale: lo Stato era imprenditore dello sviluppo, protettore assistenziale di lavoratori, donne e bambini, promotore di riforme strutturali (riforma agraria, educativa, fiscale, ecc) e, infine, durante i governi di Eduardo Frei Montalva e Salvador Allende Gossens, uno Stato rivoluzionario (in libertà e legalità).

La conversione del Cile da Stato liberale a Stato patriarcale/pianificatore (i sociologi statunitensi lo chiamarono “providence state”) trasformò la cittadinanza “sociocratica” (sovrana) del periodo 1918-1925 in una “massa di strada” disciplinata, delegante e contestante, seguace di caudillos e avanguardie, rispettosa delle leggi vigenti e, soprattutto, della Costituzione del 1925 (illegittima).

Questo tipo di Stato (liberista, ma riformista e rivoluzionario) ha vissuto una forte crisi economica tra il 1945 e il 1970 e una crisi politica catastrofica nel 1973. Come si sa, la dittatura militare ha cancellato questo tipo di Stato e di cittadinanza dal 1973, attraverso tre colpi brutali. Ha rimosso sia la politica rivoluzionaria della sinistra che la politica riformista del centro. In questo modo, la cittadinanza, in particolare la classe popolare, ha dovuto iniziare a costruire un percorso politico diverso. Perciò, quando nel 1991, il 54% dei cileni ha rinnegato il modello neoliberista, la popolazione non era più una “massa di seguaci”, ma un “movimento sociale”, gente che tendeva a pensare con la sua testa e ad adottare posizioni politiche autonome, sempre più indipendente dai partiti politici.

Così, nel 2001, 50.000 studenti medi sono scesi nelle strade per una mobilitazione ribattezzata “mochilazo” [da mochila, zaino N.d.T.] per rinnegare il modello neoliberista al grido rivoluzionario di “La assemblea comanda!”, che potrebbe tradursi con “Comandiamo noi, non i partiti e non il governo”. Nel 2006, hanno invaso le strade non solo 50.000 persone a Santiago, ma 1.400.000 adolescenti in tutto il Cile, con le proteste conosciute come il “pingüinazo”, urlando le stesse cose. L’UNDP, che ha osservato questo processo dal 1991, ha analizzato: “In Cile, è in corso un processo di “democratizzazione della politica”. Nel 2011, con questa stessa logica, si sono mobilitati in massa gli studenti universitari. Dal 2012, lo hanno fatto le assemblee cittadine territoriali (a Freirina, Punta Arenas, Aysén, Calama, Chiloé, Pascua Lama, etc.) e nel 2018, in blocco, la marea femminista.

3. I governi neoliberisti di fine XX e inizio XXI secolo (di Patricio Aylwin, Eduardo Frei Ruiz Tagle, Ricardo Lagos, Michelle Bachelet e Sebastián Piñera), senza seguire la direzione presa dalla popolazione, non fecero altro che completare e perfezionare il modello neoliberista originario, dandogli una parvenza modernista, democratica e futurista. Tutto ciò, seguendo l’assioma per cui il Cile era il “giaguaro” dell’America Latina, un’analogia con le “tigri” del Sudest Asiatico. In quest’ottica, privatizzarono l’educazione, la salute, l’acqua potabile, la pianificazione, il trasporto, le comunicazioni, le strade, la pesca, i boschi e gli allevamenti di salmoni e consentirono giganteschi accordi illegali tra grandi imprese, appropriazioni indebite ed evasioni fiscali.

Allo stesso tempo, la politica civile si consolidava come “carriera professionale” altamente remunerata, mentre cercava di convincere la classe politica militare a condividere le responsabilità e lottava per un fluido accesso del Cile nell’economia globale affinché i grandi investimenti stranieri proseguissero nel paese, promuovendone lo “sviluppo”. Questa politica scaricò un peso enorme sulle entrate delle classi popolari e del ceto medio.

La plusvalenza crebbe rapidamente e arrivò a un livello assoluto, nascosta dietro una gigantesca offerta di crediti al consumo che permisero ai poveri di avere quello che desideravamo comprando a credito quei beni che attribuiscono “status” alla classe media. Così, secondo report diffusi dalla stampa, una famiglia cilena media ha sulle spalle un debito equivalente a quasi il 75% delle sue entrate famigliari e otto volte il totale delle sue entrate annuali. Tutto è merce e tutto si paga a credito (comprese la salute, l’educazione e le 480.000 automobili nuove che anno dopo anno si importano nel paese). La plusvalenza assoluta si nasconde dietro un credito gonfiato al massimo. Pertanto, lo sviluppo del Cile non si misura più con l’aumento della “produzione”, bensì’ con l’aumento delle “transazioni commerciali”. Lo sfruttamento estremo si nasconde, dunque, dietro il pudico velo dell’iperconsumismo.

4. Alla crisi da illegittimità sistemica e a quella di rappresentatività, si aggiunge, quindi, la crisi da plusvalenza assoluta nascosta dietro il consumismo. E come se non bastasse, questa pentola a pressione non ha valvole di sfogo o di compensazione. Primo perché in Cile non esiste più la sinistra, né dentro né fuori il Parlamento; secondo perché le ideologie rivoluzionarie (tutte importate) sono fallite con Salvador Allende e Miguel Enríquez dopo il 1972 – nonostante ci sia una nuova sinistra, i nuovi partiti sono percepiti come il settore giovanile della vecchia classe politica –; terzo, perché le ONG degli anni ’80 e ’90, che hanno lavorato immerse nella società civile e per la società civile, non esistono più; quarto, perché tutte le attuali università sono impregnate dell’atteggiamento neoliberista (individualismo, ossessione per il curriculum personale, competizione tra intellettuali e tra università, internazionalizzazione degli accademici e dei loro paper, masse studentesche disorientate, ecc), motivo per il quale non pensano più ai problemi del paese e della popolazione, ma alle proprie carriere accademiche individuali; quinto, perché i politici e i partiti, a parte la loro campagna elettorale (esacerbata dal fatto che li si paga in base al numero di voti ottenuti), non hanno un contatto reale e permanente con le loro basi elettorali. In sintesi: l’importante processo di “democratizzazione” della politica, rilevato dall’UNDP quasi 20 anni fa, manca di appoggio teorico, di definizioni politiche e di accompagnamento organico, dato che si tratta di un processo nuovo e di un tipo di politica che, sebbene sia stata praticata in passato, è schiacciata da un pesante blocco di amnesia teorica di convenienza. Lo sconcerto politico dei cittadini ha creato un grande tappo che ha ritardato l’esplosione della bombola.

5. In questo contesto, il governo attuale (di destra e neoliberista) che, paradossalmente, è stato eletto per la seconda volta (non consecutiva) con una maggioranza significativa, si è sentito in diritto di dare il via a una serie di proposte legali, utili a perfezionare ancora di più la rendita delle imprese, scommettendo sul fatto che questa rendita sia alla base dello sviluppo eccezionale del Cile, un modello neoliberista che è già il più compiuto del pianeta. Accecato dal suo trionfo elettorale, Piñera non ha considerato la quadrupla “bombola” a pressione che aveva sotto i piedi.

L’atteggiamento e le parole del presidente Piñera sono una patetica espressione di questa cecità (“siamo un’oasi nella sconvolta America Latina”). Per questo, solo mancava la scintilla (una scintilla qualunque) che, urtando i nervi degli adolescenti del Cile (che hanno dimostrato dal XX secolo di avere più sensibilità storica e irritabilità politica degli studenti universitari e del proletariato messi insieme), ha fatto esplodere tutte le bombole con una scusa all’apparenza banale: l’aumento tariffario di 30 pesos (0,40 dollari) della metro nella capitale, un sistema di trasporto particolarmente caro. Quando l’oppressione nei confronti della popolazione è plurima e raggiunge un livello barometrico estremo, qualsiasi petardo può produrre l’esplosione di una crisi covata e tirata per le lunghe da troppo tempo.

6. Il Cile ha avuto, sin dal XVI secolo, una “subpopolazione”, demograficamente maggioritaria, ma pedissequamente massacrata: la popolazione meticcia. Dal XVII secolo a oggi, i meticci hanno rappresentato tra il 52% e il 68% della popolazione nazionale. Nascono come un popolo senza territorio, senza accesso legale alla proprietà, senza una memoria propria, senza un linguaggio proprio e – per decisione del Re di Spagna prima e per convenienza dell’oligarchia mercantile cilena poi – senza diritto scritto.

Non essendo “titolari di diritti”, dal 1600 al 1931 (anno in cui fu sancito il Codice del Lavoro), gli uomini e le donne meticce potevano subire abusi impunemente in tutte le forme immaginabili, comprese lo stupro, la tortura e la morte. A causa di questa situazione, vissero, tra il 1600 e il 1830 circa, come vagabondi a piedi e a cavallo (gli uomini) e in miserabili baraccopoli urbane (le donne abbandonate). Non era loro concesso vivere in coppia né in villaggi. Si ritrovarono pieni di bambini “huachos” (termine cileno per indicare bambini i cui genitori sono sconosciuti, Nd.T.) e non erano riconosciuti formalmente come cittadini. Perseguitati come “forestieri e vagabondi”, come sospetti e come “nemico interno”, tentarono di trasformarsi in produttori: contadini, fattori, minatori e artigiani.

Dal momento che erano privi di diritti, furono vessati selvaggiamente da proprietari terrieri, strozzini, padroni di mulini, creditori, militari e persino dagli esattori di decime della Chiesa Cattolica. Disperati, molti si rifugiarono sulle montagne, dove si trasformavano in squadracce, bande, ladri di bestiame e guerriglieri che assalivano e saccheggiavano fattorie, latifondi e interi villaggi. Il banditismo rurale cileno durò dal 1700 fino al 1940 circa. Né la polizia né l’esercito riuscirono a eliminarlo. In ogni caso, a causa dell’eccessiva pressione, decisero, dal 1880, di emigrare verso le grandi città, circondandole di baraccopoli e case comuni. La città meticcia arrivò a essere tre volte più grande della “città colta” dell’oligarchia. Dato che, né in ambito rurale né in quello urbano furono integrati nell’economia produttiva in espansione (l’oligarchia mercantile fece abortire tre movimenti di industrializzazione in Cile), il roto di campagna o di miniera fu sostituito e più che superato dal roto urbano [personaggio caratteristico della cultura cilena, il roto è una persona povera e allegra e con il huaso, personaggio tipico della campagna, rappresenta la “cilenità” per antonomasia, N.d.T.].

Questo spiega come, ogni volta che in Cile si è scatenato un disordine politico, le masse urbane meticce sono uscite dalla loro periferia, hanno invaso e saccheggiato il centro commerciale e a volte anche residenziale della città. È andata così a Valparaíso nel 1903, a Santiago nel 1905 e nel 1957 e in varie altre città del paese durante la dittatura militare (soprattutto tra il 1983 e il 1987). Ogni volta, si sono resi protagonisti di un’“esplosione sociale” che ha scosso fino al panico le istituzioni politiche e la sicurezza della classe dirigente e ha aperto processi di cambio strutturale che non sono mai maturati del tutto.

Fino al 1989, le molteplici sollevazioni non erano riuscite a dare vita, in Cile, a nessuna rivoluzione sociale. Il modello neoliberista imposto da Pinochet ha prodotto un grande sviluppo economico e consumista, sviluppo che tuttavia ha soltanto nascosto ai meticci, con la vernice del consumismo, il fatto che niente era cambiato nella loro marginalità cronica, nella loro mancanza di identificazione con la cultura occidentale, tanto cara all’oligarchia cilena, e nella loro profonda rabbia per essere stati per secoli soggetti del tutto esclusi dalla società moderna. Pertanto, la distruzione della materialità di quella cultura (ciò che hanno fatto sistematicamente dal XIX secolo) è riapparsa nuovamente lo scorso weekend, come un’apoteosi del consumismo (furti e saccheggi di merci, la loro guerra secolare per le risorse) e, a tratti, come un sabotaggio violento nei confronti del sistema che li esclude (distruzione e incendi di supermercati e centri commerciali, simboli di questo sistema).

7. Tutto lascia intendere che la popolazione e i meticci hanno sferrato un colpo letale al modello neoliberista cileno, colpo dal quale molto difficilmente si riprenderà. E dato che esercito e polizia non hanno scatenato una repressione sanguinosa del popolo ammutinato, si è aperta una breccia insperata dalla quale la “democratizzazione” della politica può avanzare e prendere il volo.

Molte comunità e gruppi hanno consapevolezza di questa possibilità. Il problema è che non hanno la minima esperienza in questo ambito, né memoria storica o attori intellettuali e politici che siano in condizione di aiutarli in questo passaggio. Perché se è vero che la breccia esiste, è anche vero che il lasso di tempo per procedere è relativamente corto, poiché la classe politica approverà rapidamente leggi populiste per moderare la situazione e assicurare la propria stabilità al potere (hanno già visto riudirsi di metà il loro stipendio parlamentare). La situazione è complicata perché il nemico del popolo non è più, oggi, la borghesia in sé o l’imperialismo in sé, come in passato, ma una classe politica che non ha mai rappresentato direttamente il popolo e che difende i capitali internazionali, dai quali dipende per il suo “sviluppo” di classe. La popolazione cilena ha bisogno di coraggio e creatività e di agire in fretta, scegliendo il percorso più breve per attivare assemblee di base dappertutto allo scopo ultimo di arrivare, a livello federale, a un’Assemblea Nazionale Costituente che detti leggi costituzionali ispirate ai suoi interessi e alla sua saggezza partecipativa. Ci sono cellule di questo tipo in tutto il Cile. C’è una legge, la N° 20.500, sulla Partecipazione Cittadina che fornisce le procedure e i meccanismi istituzionali per portare a termine questo compito. È già esplosa la scintilla che fa sì che la pressione rivoluzionaria insita in questa ribellione possa dispiegare le sue ali e avverarsi. Tuttavia, “il peso della notte” (che dura già da due secoli) e la debolezza teoria e politica cospirano contro di lei. È però necessario avere fiducia nell’istinto umano, sociale e comunitario di una popolazione sveglia e determinata.

 

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