Il Super marzo del Cile

[di Susanna De Guio da Jacobin]

La repressione non ha fermato l’enorme e furiosa sollevazione popolare cilena e in queste settimane tornano le mobilitazioni studentesche, femministe e ambientaliste insieme alla battaglia per la nuova costituzione.

L’inizio di marzo apre una nuova stagione di mobilitazioni in Cile, simbolicamente rappresentata dal Super Lunes, lunedì 2 marzo, che coincide con il rientro al lavoro della gran parte della popolazione, a cui segue il 4 la ripresa scolastica. Ancora una volta la data è circolata sui social media, ancora una volta nelle principali città le strade si sono riempite di manifestanti e si sono alzate le barricate, non solo per il «super lunedì» ma per un «super marzo» fitto di obiettivi importanti per il Cile che si è svegliato dall’incubo neoliberale.

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Il 18 ottobre passato ha dato inizio al tempo della protesta, che ora scandisce l’anno dettando l’agenda politica del paese: si festeggia il compiersi di ogni nuovo mese di mobilitazioni, si contano i giorni di vita del nuovo Cile e poco a poco prende forma una narrativa e un’estetica propria della rivolta. L’epica si legge sui muri di Santiago e di tutti i principali centri urbani, gli eroi popolari occupano le piazze e tirano pietre in prima linea, i pacos culiaos che risuonano negli slogan e primeggiano tra i graffiti sparsi ovunque, i fottuti sbirri, sono stati i protagonisti delle hit dell’estate, insieme alle invettive contro il presidente Piñera.

La mappa della rivolta

Questa primavera cilena si ostina a non mostrare leader riconoscibili né dirigenti politici; il suo simbolo condiviso, che sta facendo il giro del mondo ed è già diventato merchandising, è un cane randagio, nero come la pece, con un fazzoletto rosso al collo, il negro matapacos, che ha accompagnato per anni le proteste studentesche, già a partire dal 2011, sempre dalla parte dei ragazzi e contro la polizia.

Difficile dunque, leggere il processo sociale in corso, individuare i possibili scenari politici, prevedere l’evoluzione di questa enorme e furiosa sollevazione popolare. Quel che è possibile fare è invece cercare di non ridurre la complessità e comporre la mappa della rivolta cilena, osservando i diversi soggetti sociali che la abitano, uniti dal rifiuto del modello neoliberale più brutale di tutta l’America Latina, determinati a rivendicare dignità per il popolo, e a difendersi dalla costante aggressione delle forze repressive, che rappresentano finora l’unica risposta chiara giunta dal governo.

Tuttavia, risulta ormai evidente che la repressione, per quanto violenta, non è in grado da sola di fermare le proteste: in questi quattro mesi la mobilitazione non solo non è scemata, ma ha continuato al contrario a estendersi, moltiplicarsi, diversificarsi. Nemmeno la pausa estiva, tra gennaio e febbraio, ha potuto diluire il ritmo della rivolta, che ha occupato gli stadi e il poi il festival di Viña del Mar, e che ha continuato a organizzarsi nei territori. Perfino Ricky Martin e Mon Laferte hanno appoggiato le proteste del popolo cileno dal palco del famoso festival di Viña, mentre la Quinta Vergara tremava al ritmo di «chi non salta è uno sbirro» e nelle strade della località balnearia si scatenava la protesta.

Gli studenti superiori di nuovo all’attacco

Se l’inizio della sollevazione si può ricondurre all’evasione del biglietto della metro da parte degli studenti superiori, sono di nuovo loro i protagonisti di questo inizio marzo che promette di essere incandescente. La Aces (Asamblea Coordindora Estudiantes Secundarios) si è riunita in assemblea nazionale il 1 marzo, al termine del viaggio che i due portavoce Ayelén Salgado e Victor Chanfreau hanno condotto a partire dallo scorso 21 febbraio in diverse regioni cilene per coordinare i prossimi obiettivi delle proteste. «Sappiamo che in marzo comincia un anno in cui nuovamente cercheranno di normalizzare tutto quel che sta succedendo e non lo permetteremo» dichiara Ayelén, «oggi l’organizzazione deve esserci e si sta articolando in tutte le regioni del nostro paese, e noi saremo lì come studenti superiori insieme a tutti i settori in lotta» afferma nei video che convocano all’assemblea il giorno prima del cosiddetto «Super Lunes».

img_0190Sarà una casualità che il 28 febbraio sia avvenuta la rinuncia della ministra all’Educazione, Marcela Cubillos. In conferenza stampa la ministra ha dichiarato di lasciare l’incarico per partecipare alla campagna per il Rifiuto alla nuova Costituzione, tema che andrà a plebiscito il prossimo 26 aprile e che sta polarizzando le scelte dei principali partiti politici. Per non smentire la linea del governo, al suo posto assumerà il sottosegretario all’educazione Raúl Figueroa, conosciuto per la sua posizione a favore del business dell’educazione.

La ministra Cubillos era già stata al centro di dure polemiche a inizio anno, quando le organizzazioni studentesche hanno invitato gli studenti a boicottare la prova di selezione universitaria (Psu), prevista per il 6 e 7 gennaio, manifestando e impedendo l’ingresso nelle aule. Il test introdotto nel 2004 e ribattezzato «prova di segregazione universitaria», è conosciuto per la scorrettezza del meccanismo selettivo di accesso all’università, che taglia fuori ampi settori della popolazione giovane, in un paese in cui proseguire gli studi significa in ogni caso anche avere i mezzi per pagarseli, e normalmente implica indebitarsi per anni. In seguito al boicottaggio della Psu, che è riuscita in due giornate di mobilitazione a invalidare la prova di Storia a livello nazionale e a bloccare l’esame di decine di migliaia di studenti, la ministra Cubillos aveva reagito pubblicamente minacciando i rappresentanti della Aces, mentre il governo invocava la Legge di Sicurezza dello Stato per querelare 34 studenti riconosciuti come promotori del boicottaggio alla Psu, e 86 di loro sono stati esclusi dalla possibilità di dare l’esame nelle due date successive abilitate dal Demre, l’istituzione incaricata della selezione.

Il femminismo incrocia le braccia

Ma la protesta studentesca non arriva da sola in questo inizio marzo cileno, il movimento femminista ha preparato un fitto programma di mobilitazioni, culminato nel doppio appuntamento internazionale dell’8 e del 9 marzo, con lo sciopero produttivo e riproduttivo delle donne e dissidenze sessuali.

img_9610Davanti all’invito di Isabel Plá, del Ministero della Donna e dell’Equità di Genere, a concordare l’organizzazione del corteo e dello sciopero, le diverse componenti del movimento femminista hanno rifiutato il dialogo con un governo che ritengono responsabile delle violazioni e della repressione negli ultimi quattro mesi, durante le proteste, in un contesto di terrorismo di Stato. «Non permetteremo che siano loro a proporre i termini della pace, perché siamo noi femministe che stiamo mostrando la violenza che affrontiamo tutti i giorni, e in particolare da parte degli agenti dello Stato, carabinieri e militari» ha dichiarato la portavoce della Coordinadora 8M, Javiera Manzi. Per lo stesso motivo a Santiago il coordinamento, che raccoglie numerose organizzazioni femministe, ha deciso di non chiedere l’autorizzazione per il corteo a quelle stesse istituzioni che si sono rese responsabili di torture e violenze, e aveva invece interposto a metà febbraio un «ricorso di protezione» alla corte d’appello contro l’intendenza della regione metropolitana e contro i carabinieri, per evitare la violazione del diritto di riunione e manifestazione.

Da parte sua, il governo ha annunciato che durante le mobilitazioni avrebbe dispiegato 1.700 carabiniere donne sul territorio nazionale, misura a cui le femministe hanno risposto immediatamente: la presenza di donne uniformate non garantisce la sicurezza delle manifestanti, e la loro denuncia è rivolta all’agire repressivo dell’istituzione indipendentemente dal genere degli e delle agenti.

Gli appuntamenti del marzo femminista sono cominciati martedì 3 a Valparaiso, dove la ministra Plá ha dovuto rispondere davanti al Congresso all’interpellanza parlamentare richiesta per l’assenza di misure davanti alle ormai 195 denunce per violenza politica sessuale, accumulate fin dalle prime giornate di protesta lo scorso ottobre. Il 7 marzo è stata la giornata di visibilità delle dissidenze sessuali e contro i crimini d’odio legati al genere, l’8 una domenica di grandi manifestazioni in tutto il paese, che ha rilancia il lunedì 9 con lo sciopero internazionale, a cui hanno aderito diverse sigle sindacali. E internazionali sono anche le attività di questi giorni, in tutta l’America Latina, in ricordo di Berta Cáceres, attivista honduregna femminista e ambientalista uccisa ormai quattro anni fa per la difesa del suo territorio contro l’installazione di imprese idroelettriche.

L’acqua non si vende

La lotta per l’acqua è uno dei grandi temi presente fin dall’inizio tra le rivendicazioni della sollevazione in Cile, l’unico paese al mondo dove è stata privatizzata: il Codice dell’Acqua del 1981 ha concesso diritti permanenti sul suo uso alle imprese forestali e industrie agricole, oggi detentrici del 94% dell’acqua dolce disponibile. La ridotta percentuale destinata al consumo umano, che viola uno dei diritti fondamentali per la sopravvivenza, e che colpisce gli ecosistemi acquatici, si è aggravata nel 2019 a causa della peggiore siccità della storia cilena, che sta mettendo a rischio le condizioni di vita di migliaia di persone che non hanno accesso all’acqua potabile, mentre sono già state compromesse le coltivazioni e la vita degli animali d’allevamento.

Il 22 marzo è la giornata mondiale dell’acqua e sono previste attività e mobilitazioni che esigono la derogazione del Codice dell’Acqua, la fine della privatizzazione e una legge di protezione dei ghiacciai, dei fiumi e delle zone naturali del paese; Francisca Fernandez, referente del Movimento per l’Acqua e i Territori, spiega: «stiamo lottando per il recupero dei beni comuni, non vogliamo più parlare di risorse naturali, pensiamo la natura come un soggetto politico, un soggetto di diritto, parliamo di diritti della natura e riconosciamo l’estrattivismo come la base dello sfruttamento del capitalismo nel nostro continente, non vogliamo più questo modello energetico-produttivo che sostiene il neoliberismo, e la risposta deve venire dalla lotta nei territori, è l’unica possibilità».

Le sue parole hanno ricevuto gli applausi delle centinaia di persone che si sono riunite lo scorso 18 gennaio a Santiago nel primo grande incontro del Coordinamento delle Assemblee Territoriali (Cat), sorte spontaneamente nei quartieri e nelle città di tutto il paese già dalle prime settimane dopo il 18 ottobre.

«Tutto il potere alle assemblee territoriali»

Le assemblee autoconvocate sono un altro dei soggetti sociali chiave che compone la mappa della rivolta cilena, diffuse da nord a sud come un capillare sistema sanguigno del nuovo Cile. Il coordinamento aspettava 500 persone ed è stato travolto da oltre 1.000 partecipanti, rappresentanti di 164 assemblee solo sul territorio metropolitano di Santiago.

Oltre a programmare il prossimo appuntamento, che sarà su scala nazionale, il primo incontro della Cat ha prodotto un documento comune fondato su quattro assi di discussione: la nuova costituzione, l’agenda sociale da imporre al governo, la rivendicazione dei diritti umani, e la costruzione del potere autonomo territoriale.

La sfida di questo soggetto politico nuovo, costruito dal basso, assembleare e orizzontale, che non si confronta con i partiti e rifiuta le strutture politiche tradizionali, sarà poter incidere nel processo costituente che si aprirà con il plebiscito del prossimo 26 aprile. Sono molte e molto nette le critiche alla proposta che è stata «cucinata» dal governo lo scorso 15 novembre con il nome di «accordo per la pace e una nuova costituzione». Il voto determinerà se cambiare la costituzione vigente, che è ancora quella scritta nel 1980 durante la dittatura di Pinochet, ma in gioco c’è anche e soprattutto il come del processo costituente: quale parte della società vi avrà accesso e sarà rappresentata, quali saranno le regole per l’approvazione dei nuovi articoli costituzionali, ed è una discussione aperta anche se sia possibile scrivere una nuova Carta Magna dei diritti mentre nel paese le forze di sicurezza dello Stato continuano a commettere gravi violazioni, che restano impunite.

Una nuova Costituzione, sì ma di chi?

Il funzionamento della costituente, con il quorum fissato ai 2/3, finisce per togliere potere all’organo che dovrà approvare i nuovi articoli, dando di fatto potere di veto alla minoranza rappresentata, e lo stesso nome di «convenzione costituente» – affibbiato dal tavolo tecnico dell’accordo di novembre all’organo incaricato di produrre la nuova costituzione – lascia intendere che difficilmente si tratterà di un’assemblea realmente sovrana, anche nel caso in cui dovesse vincere l’opzione che prevede l’elezione di tutti i legislatori tra la cittadinanza e non la formula mista, con metà dei rappresentanti dei partiti politici. Inoltre non è stata garantita la parità di genere né è stata riservata una quota ai rappresentanti dei popoli originari nel futuro organo costituente, e non è chiaro nemmeno come avverrà la partecipazione di candidati indipendenti che non vengano dalla politica istituzionale, in forte discredito in questa nuova epoca di partecipazione politica dal basso in Cile.

img_0162Nonostante le criticità che presenta il processo costituente, un sondaggio di metà gennaio affermava che il 67% dei cileni è a favore di una nuova costituzione, e i partiti della destra hanno cominciato a schierarsi per il No, ma il panorama è sfaccettato: mentre l’Udi e il nuovo Partito Repubblicano di ultra destra sono per il rifiuto, all’interno di Renovación Nacional (il partito di Piñera) ed Evopoli ci sono spaccature. Dai partiti dell’opposizione sono partite già da gennaio le campagne per l’approvazione, ma non sono riuscite a mettersi d’accordo in un fronte unico: Convergencia Progresista, la Dc e il Frente Amplio hanno lanciato ciascuno la propria campagna, a cui si aggiunge quella del Partito Comunista, che non aveva partecipato all’accordo di novembre ma ha deciso di appoggiare comunque il voto al plebiscito. Il panorama istituzionale dunque è frammentato, e le polemiche si riflettono anche sull’uso della frangia televisiva di mezzora al giorno che verrà dedicata alla campagna per il voto dal prossimo 27 marzo e fino al 23 aprile.

El pueblo está en la calle, e il governo?

Davanti al panorama delle mobilitazioni previste per il mese di marzo, Piñera ha dichiarato che è disposto a decretare nuovamente lo Stato d’Emergenza e il coprifuoco se lo riterrà necessario, e ha incalzato il Congresso ad approvare rapidamente un polemico progetto di legge formulato in novembre, in cui verrebbero ampliate le facoltà del presidente per schierare le forze armate a difesa di infrastrutture ritenute critiche in caso di violenza. Nel frattempo, lo scorso 30 gennaio è entrata in vigore la legge anti saccheggio e anti barricate, mentre è in attesa dell’iter di approvazione la anti capucha; inoltre a metà dicembre è entrato in discussione un progetto di legge che modificherebbe il codice penale per rafforzare le forze dell’ordine, della sicurezza e la gendarmeria, senza contare i progetti rivolti a migliorare e modernizzare i servizi di intelligence e vigilanza aerea.

L’11 marzo è dunque un’altra data sensibile per la piazza, perché segna il compiersi del secondo anno di mandato del presidente meno legittimo della storia democratica del paese: «Piñera rinuncia» è la richiesta più diffusa da nord a sud in tutto il Cile, e lo hanno confermato i sondaggi di metà gennaio, che gli hanno assegnato un misero 6% di approvazione, record storico tra i leader politici in tutta l’America Latina.

I numeri della violenza di Stato

In quattro mesi di proteste, secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Nazionale per i Diritti Umani (Indh) il numero dei detenuti è di 10.365 persone, di cui il 12% sono minorenni; le persone ferite ammontano a 3.765, le lesioni agli occhi hanno raggiunto l’agghiacciante numero di 445, di cui 34 corrispondono a esplosione o perdita oculare, e sono due le persone che hanno perso integralmente la vista a causa dei proiettili dei Carabineros, Gustavo Gatica e Fabiola Campillay.

Dall’inizio del 2020 si sono inoltre verificati due nuovi omicidi da parte dei Carabineros, che si aggiungono ai 29 morti registrati dall’inizio della rivolta. Il 29 gennaio il tifoso del Colo-Colo Jorge Mora è stato investito da un camion dei Carabineros fuori dallo Stato Monumentale al termine della prima partita del campionato nazionale, e il 30 gennaio è morto a ventiquattro anni Ariel Moreno per una pallottola ricevuta alla testa, davanti a un commissariato nel comune di Padre Hurtado, nella Regione Metropolitana di Santiago, dove si trovava a manifestare per la morte di Jorge Mora, «el Neco», del giorno prima.

img_9441Una data che potrebbe costare altre vite al movimento di rivolta cileno è il 29 marzo, il giorno del giovane combattente. È una giornata di lotta storica, che commemora la morte dei giovanissimi fratelli Eduardo e Rafael Vergara Toledo, uccisi dai Carabineros nel 1985 durante la dittatura militare nel quartiere di Villa Francia a Santiago, e che usualmente coinvolge soprattutto i ragazzi nelle poblaciones, le periferie urbane povere in tutto il paese, con azioni dirette e livelli alti di conflitto.

Conflitto sociale vs violenza statale

La brutalità e l’impunità con cui agiscono le forze dell’ordine non è una novità in Cile, si tratta di un corpo dello Stato che non è mai stato riformato dopo la dittatura, che funziona con un regime giudiziario in parte autonomo e che gode di privilegi salariali e benefici rispetto al resto della popolazione. Lo sa bene il popolo mapuche, che subisce la repressione dello Stato cileno da 140 anni, e le cui bandiere sventolano in tutte le piazze a partire da ottobre; non è una casualità che durante questi mesi sia emersa con forza la solidarietà al popolo mapuche e il riconoscimento di una fratellanza con il Cile in rivolta, ora oggetto della stessa violenza da parte dei carabineros. Ma lo dimostra anche la rapidità con cui si è organizzata la prima linea, fenomeno ormai famoso e osservato in tutto il mondo, che ha prodotto un’alleanza inedita tra chi pratica l’azione diretta contro le forze di polizia, e chi manifesta pacificamente con slogan, musica e performances. Lo provano gli e le studenti superiori, allenati da anni alla violenza dei lacrimogeni e dei guanacos, i carri idranti, in tutte le loro manifestazioni, e infine lo dicevano chiaro gli slogan fin dai primi giorni di protesta: «abbiamo perso così tanto che abbiamo perso anche la paura».

Questo non avere nulla da perdere si affianca a un’altra parola d’ordine, che già da novembre è un ashtag virale, il #NoHemosGanadoNada, «non abbiamo ancora ottenuto niente»: le mobilitazioni non possono spegnersi perché ormai non è più possibile tornare a far dormire un popolo che si è svegliato, e le rivendicazioni portate in piazza dai diversi soggetti sociali sono ancora tutte valide e tutte da compiere. Sebbene questi primi quattro mesi di proteste siano serviti a sbloccare e approvare diverse leggi che erano rimaste per anni fuori dalle priorità nel dibattito parlamentare, la «nuova agenda sociale» promessa dal governo è lontana dall’essere stata implementata e la sproporzione della diseguaglianza sociale in Cile è ancora intatta.

Il mese di marzo apre dunque un 2020 combattivo, che si profila decisivo per il futuro del Cile: all’orizzonte non si vedono mediazioni possibili con una classe politica che non ha più nessuna carta da giocare per riportare il conflitto dentro i confini istituzionali, e d’altro canto Piñera non manifesta nessuna intenzione di rinunciare alla presidenza; nei prossimi mesi sarà il braccio di ferro sulla Costituzione l’asse centrale per capire come si riposizionerà l’arco politico anche sul medio e lungo periodo, la battaglia è ancora lunga, e anche se il costo per il popolo cileno si sta rivelando altissimo, quel che è certo è indietro non si torna.

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