di Alessandro Bricco, Simone Scaffidi, Marco Dalla Stella

Alla metà di aprile 2020 risulta ormai chiaro che l’emergenza sanitaria rappresentata dalla pandemia di Covid-19 è destinata a produrre conseguenze di lungo periodo su scala planetaria; in America Latina il virus si è cominciato a diffondere da circa un mese e mezzo, ma nessuno dei paesi del continente può dirsi vicino al superamento del rischio di contagio, che permetterebbe di rimuovere le norme eccezionali adottate per affrontarlo.
Dopo aver messo a confronto le strategie messe in atto da tre grandi paesi del Cono Sud – Brasile, Argentina e Cile, continuiamo l’analisi degli effetti che la crisi pandemica sta producendo nella regione latinoamericana. Ripartiamo dal Centro, con una rassegna delle condizioni in cui si trovano attualmente Messico e Guatemala per poi passare all’Ecuador, che nelle ultime settimane è stato il paese con la più alta mortalità (in termini percentuali) a causa del Covid-19.
Messico tra fase 1 e fase 2
Il 28 febbraio è stato confermato il primo caso di Coronavirus in Messico, un uomo di 35 anni che era appena tornato da un viaggio in Italia, a Bergamo. È passato più di un mese e mezzo, e attualmente il presidente Andrés Manuel López-Obrador (AMLO) continua a viaggiare per il paese presenziando eventi pubblici massivi, tra i dubbi della cittadinanza e le critiche dell’opposizione; il sottosegretario del ministero della salute Hugo López-Gattell lo accompagna in alcune conferenze stampa mattutine, un po’ accigliato ma invitando il paese alla calma.

Il primo a prendere misure effettive è l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) quando il 16 marzo chiude i caracoles raccomandando “ …alle basi di appoggio e a tutta la struttura organizzativa di seguire una serie di raccomandazioni e misure di igiene straordinarie che saranno trasmesse nelle comunità, villaggi e quartieri zapatisti”. Due giorni dopo, AMLO dice di proteggersi dal virus con i santini che gli hanno donato – “Detieniti nemico! Il cuore di Gesù é con me!” -, nello stesso giorno muore la prima persona e si annuncia la prima giornata di presentazione della campagna Su Sana Distancia (la sua sana distanza). Chiudono poi le scuole e le attività non essenziali, si riprogrammano gli eventi massivi. Il sottosegretario raccomanda l’uso di mascherine e gel antibatterico, beni che sono diventati quasi introvabili, cari e di dubbia qualità. La gente comincia a sentire Covid-19 più reale, più vicino. Il 21 marzo, durante una delle conferenze stampa serali “Susana Distancia” è diventata la super-eroina si interporrà tra le persone al fine di creare quella sana distanza di 1,5 m che permetterebbe di evitare il contagio.
In Messico esistono 66 mila posti letto negli ospedali, dei quali poco più di 2000 sono attrezzati per la terapia intensiva. Nel paese vivono, più di 17 milioni di persone, il 73% di esse soffre obesità o sovrappeso e il 10% diabete, che insieme all’età sono i maggiori fattori di rischio evidenziati ogni giorno durante la conferenza stampa serale da López-Gattell. Il sottosegretario è un tecnico ma nel frattempo è diventato una presenza carismatica nella vita dei e delle messicane, la sua attitudine calma, rassicurante e colta l’ha fatto diventare un personaggio molto più popolare di Susana Distancia. Grazie alle sue lezioni di statistica e alla forma pacata di rispondere alle domande dei mezzi di comunicazione, il governo prova a riacquistare un po’ di quella credibilità persa con l’istituzione della guardia nacional che ha progressivamente militarizzato il paese, in particolare le zone rurali e contadine nelle regioni del Chiapas, Michoacán, Guerrero e l’ostinazione nel portare avanti il megaprogetto del cosiddetto tren maya, che ha ricevuto il netto rifiuto da parte dei territori che sarebbero coinvolti dalla grande opera.
Con queste caratteristiche il governo dichiara il passaggio dalla fase 1 alla fase 2. Il 24 marzo viene annunciata l’iniziativa “Quèdate en casa” che esorta i cittadini a rimanere nelle loro case, raccomandando ai datori di lavoro di pagare il salario completo ai dipendenti e chiudere tassativamente tutte le attività non essenziali; dove sará possibile si lavorerà da casa. In un paese dove la metà della popolazione vive alla giornata o di lavori informali, sono pochi quelli che possono permetterselo e chi aveva un lavoro o un contratto, in troppi casi è stato invitato a firmare una lettera di dimissioni o semplicemente cacciato. La realtà sociale del paese è molto diversa da quella pensata da López-Gatell nelle sue conferenze stampa, malgrado quasi ogni sera ricalca che “la povertà è un’aberrazione sociale che viene da molti anni di ingiustizia”.
In Yucatán, la maggior parte dei villaggi ha chiuso l’ingresso ai non residenti e dalle 20 nessuno può uscire di casa. La paura è molta e gli ospedali sono pochi e distanti, un contagio in queste comunitá sarebbe un disastro. Per ora, tutti i contadini maya che hanno perso il lavoro sulla costa di Cáncun non possono neanche andare a vendere i prodotti dello (scarso) raccolto dell’anno passato. A rigore possono uscire dal loro villaggio ma è proibito entrare in qualsiasi altro. Alcuni di loro ne approfittano per lavorare nei campi in vista di una stagione che si prospetta peggiore dell’anno passato e alcuni evangelici adottano una posizione millenarista. Il governatore ha stanziato fondi in appoggio a chi è rimasto disoccupato, la pagina web dove bisognava registrarsi si è sovraccaricata in due giorni e al quarto non era più possibile richiedere l’appoggio, 62 mila persone ne hanno fatto richiesta. Solo in Yucatán nel mese di marzo sono triplicate le chiamate al Centro Antiviolenza sulle le Donne e il governatore ha imposto la ley seca (proibizione delle sostanze alcoliche) per evitare violenze domestiche insieme ai governi di Quintana Roo, Campeche, Tabasco, Sinaloa e Sonora. In uno stato come quello yucateco, che ogni anno vince il record nazionale per alcolismo e ricoveri ad esso correlati è un’iniziativa estrema, superficiale se si vuole evitare la violenza domestica e colpevole perché obbliga la maggior parte della popolazione a rifornirsi sul mercato nero.

Al 20 di aprile 2020 sono stati registrati 8261 casi confermati e 686 decessi, Città del Messico, Bassa California Sud e Stato del Messico sono le regioni più colpite. È stata calcolata la necessità di 15 mila respiratori artificiali ma ne sono disponibili poco più di 5 mila; quelli che Trump ha venduto ad AMLO non sono ancora arrivati. Il climax dell’epidemia è previsto nelle prime settimane di maggio, López-Gattell annuncia l’imminenza della fase tre e posticipa la scomparsa di Susana al 30 dello stesso mese. Le lezioni sono ricominciate (online) lunedì 20 aprile ed è legittimo domandarsi per chi, visto che la possibilità di un computer e una connessione a internet è un privilegio di pochi.
Nel mentre, AMLO afferma che a maggio inizieranno i lavori per il Treno Maya ( che non è maya e non è solo un treno) e 30 mila persone lavoreranno nei suoi cantieri. Si intravede l’inizio della fase 3.
L’emergenza coronavirus in Guatemala
Il 5 di marzo il Presidente della Repubblica Alejandro Giammattei dichiara lo Stato di Calamità per prevenire l’emergenza coronavirus. Lo stato d’eccezione garantisce ai poteri statali la possibilità di limitare alcuni diritti fondamentali della popolazione quali il diritto di riunione, di manifestazione e il diritto alla libera circolazione. Il 13 di marzo si conferma il primo caso di coronavirus nel Paese. L’uomo, di nazionalità guatemalteca, tornava da un viaggio in Italia e il suo caso viene accertato in aeroporto. Lo stesso giorno il Presidente annuncia la predisposizione dell’ospedale di Villa Nueva per ricevere e isolare i casi di coronavirus. Il 14 di marzo il governo vieta le riunioni pubbliche e private di più di 100 persone, restringe le visite agli ospedali, sospende le attività religiose previste per la quaresima e le feste patronali. Sospende le lezioni a tutti i livelli educativi e cancella gli eventi sportivi. Il 15 de marzo il ministro della Salute informa del decesso per coronavirus di un uomo di 85 anni, si tratta della prima morte in Guatemala a causa del virus e viene confermato un secondo caso. Circa 300 persone vengono messe in quarantena e si proibisce l’ingresso di cittadini europei al Paese.

Il 16 de marzo Giammattei presenta con un messaggio televisivo al Paese la situazione del coronavirus nel mondo con dati e percentuali sui decessi, secondo le età e il percorso clinico, s’impone il coprifuoco dalle 21 alle 4 di mattina. Si chiudono le frontiere aeree e marittime. Si sospendono le attività lavorative statali e private e qualsiasi tipo di evento con qualunque numero di persone. Si vietano le attività sportive, culturali e sociali, così come il funzionamento del trasporto pubblico urbano e interurbano. Si vietano le visite nelle carceri, nei centri di assistenza anziani e le celebrazioni religiose. Si chiudono tutti i centri commerciali del Paese e si vieta l’accaparramento di prodotti di prima necessità e medicine. Si vieta l’ingresso di cittadini stranieri al paese. Si proibisce la vendita di alcool dalle 18 alle 5 di mattina.
Il 17 di marzo Giammattei ritorna in televisione per il consueto video-messaggio al Paese, routine quotidiana dei giorni a venire. Tutta la comunicazione ufficiale intorno al virus gravita intorno al Presidente della Repubblica. La sovraesposizione mediatica diventa il marchio di fabbrica nella gestione dell’emergenza e alimenta la retorica militar-messianica dell’uomo forte che da solo si carica sulle spalle il fardello di risolvere la crisi. Ma l’immagine che ha voluto darsi il presidente viene ridimensionata in meno di 24 ore dai blocchi del potere economico che gli intimano di fare marcia indietro. Giammattei si affretta a rassicurare il settore imprenditoriale e chiarisce, dopo aver dichiarato la sospensione delle attività lavorative statali e private, che le imprese possono continuare le proprie attività se accettano le condizioni imposte con le nuove norme sanitarie e se garantiscono il trasporto privato ai propri impiegati. È una giravolta grottesca condita in chiusura con l’invito a digiunare di sabato e pregare affinché Dio aiuti il popolo di Guatemala.

Il 20 di marzo, dopo una settimana dal primo caso, il bilancio ufficiale è di 13 contagi e una persona deceduta. Giammattei comunica di aver raggiunto un accordo con la Cámara del Comercio che si impegna a garantire la chiusura volontaria delle industrie non essenziali. Dal 22 di marzo si inasprisce il coprifuoco. Si potrà uscire di casa solamente dalle 4 alle 16, chi sarà incontrato in strada fuori dell’orario verrà arrestato. In meno di un mese si assiste a un vero e proprio processo di pulizia sociale, vengono arrestate più di 10.000 per non aver rispettato il coprifuoco. Tre giorni più tardi il governo lancia l’applicazione Alerta Guate, sviluppata dal governo d’Israele, uno strumento promosso per far fronte all’emergenza ma che una volta scaricato sul proprio cellulare registra i dati personali e le informazioni relative alle proprie reti sociali. Organizzazioni della società civile in difesa dei diritti umani si pronunciano contro tale strumento di controllo e la Procuradoria de los Derechos Humanos manifesta le proprie preoccupazioni.
Il 29 de marzo Giammattei conferma 36 casi di coronavirus e la permanenza di 1400 persone in quarantena stretta, 400 delle quali vigilate direttamente dalle forze di polizia. Per rispondere ai dubbi e alle critiche che lo accusano di nascondere la reale entità della diffusione del virus nel Paese, il Presidente risponde che il governo “non guadagna niente nel nascondere i casi” e che cercherà di lavorare per aumentare il numero di tamponi. Per quanto riguarda il sostegno alle famiglie con scarse risorse economiche, Giammattei dichiara che si daranno 1000 quetzales (circa 120 euro, mentre il salario minimo corrisponde a 320 euro mensili) a 200.000 famiglie in difficoltà e che l’esercito consegnerà 200.000 casse di cibo. Comunità di varie province sparse per tutto il territorio nazionale denunciano l’arbitrarietà nella distribuzione degli aiuti, indirizzati dalle municipalità alle persone vicine o affiliate al partito del sindaco di turno. Si denunciano inoltre distribuzioni di viveri e mascherine in cambio del registro dei dati delle persone: nome, cognome e numero del documento d’identità. Diverse organizzazioni sociali segnalano tale pratica e mostrano preoccupazione di fronte al possibile uso fraudolento dei dati per legittimare progetti estrattivi e abusi da parte delle municipalità e delle imprese nei territori.

Dal 5 di aprile si proibisce viaggiare fuori dal proprio dipartimento di residenza e si proibiscono la vendita e il consumo di alcool durante la settimana santa. Lo stesso giorno si registra a Patzún, nel municipio di Chimaltenango, il primo caso di contagio “comunitario”, ovvero la prima persona che ha contratto il virus senza però essere entrata in contatto con persone contagiate. Fino ad ora tutti i casi di contagio avevano interessato persone che erano tornate nel Paese dopo un viaggio all’estero o avevano avuto contatti con esse. Il governo riconosce l’impossibilità di fare tamponi massivi alla popolazione e allo stesso tempo ne afferma l’inutilità senza una pianificazione orientata e efficiente, che al momento pare non poter garantire.
Il 10 di aprile in un solo giorno si riportano 39 nuovi casi e si balza a 106 contagi secondo i dati ufficiali. Il giorno successivo il governo si affretta a dichiarare che, per la sicurezza degli interessati, non comunicherà i municipi di residenza delle persone contagiate. Dal 12 di aprile l’uso della mascherina nei luoghi pubblici diventa obbligatorio, chi non rispetterà la nuova norma verrà sanzionato con un’ammenda. Lo stesso giorno diverse testate giornalistiche, organizzazioni della società civile e giornalisti free lance denunciano pubblicamente, con un comunicato, le limitazioni al diritto alla libertà di espressione e al diritto di accesso all’informazione. Segnalano intimidazioni e minacce pubbliche da parte del governo contro la stampa e l’opacità dell’informazione offerta dai suoi rappresentanti in merito all’emergenza coronavirus,
Secondo i dati ufficiali al 20 di aprile si registrano 289 casi di contagio, 261 dei quali attivi, 21 guariti e 7 deceduti, mentre una persona che aveva contratto il virus è morta per cause estranee al coronavirus.
Ecuador, una catastrofe annunciata
Al 20 aprile i casi di Covid-19 confermati in Ecuador sono 10.128 e i morti 1.333, in larga nella provincia di Guayas dove si concentra il 68,3% dei contagiati. Questo colloca il Paese al secondo posto in America Latina per numero di decessi dopo il Brasile, che però ha una popolazione 12 volte superiore. Esiste tuttavia ampio consenso che i dati disponibili siano fortemente sottostimati.

La scarsa affidabilità delle cifre ufficiali è stata ammessa in diretta nazionale lo scorso 2 aprile dal Presidente Lenín Moreno, dopo che le immagini di decine di cadaveri abbandonati nelle strade di Guayaquil avevano fatto il giro del mondo. Il sistema sanitario, che da anni subisce un crescente processo di privatizzazione, non riesce infatti ad assicurare il ricovero dei malati, né il recupero dei defunti dai domicili. Nella sola Guayaquil sono almeno 1.400 i cadaveri recuperati nelle ultime settimane dalla squadra speciale predisposta dal governo per fare fronte all’emergenza (le cause di morte, però, non sono state rese note).
Il primo caso di Covid-19 in Ecuador viene confermato il 29 febbraio dall’allora Ministro della Salute, Catalina Andramuño. Si è trattato di una cittadina di 71 anni di ritorno a Guayaquil dalla Spagna, Paese che ospita la più grande comunità ecuadoriana al mondo (circa 450.000 persone). Proprio la forte presenza ecuadoriana in due dei paesi più colpiti dal virus (Spagna e Italia) ne spiegherebbe la rapida diffusione nel Paese sudamericano.
È significativo che la crisi – prima sanitaria, poi economica e quindi sociale – sia esplosa all’interno del motore economico del Paese. Guayaquil è il modello che viene portato a esempio del successo delle politiche neoliberiste, sede delle principali multinazionali e dell’élite politica che ha governato l’Ecuador fino alla Revolución Ciudadana di Rafael Correa. La disuguaglianza sociale qui è la più alta del Paese, e vede convivere a poca distanza la più alta concentrazione di capitale e il più alto tasso di povertà (14,1% a giugno 2018, dati INEC).

Da quel 29 febbraio la reazione del governo è stata di graduale chiusura. Il 12 marzo, con un giorno di anticipo rispetto al primo decesso ufficiale per Coronavirus, è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria e sospesi i corsi di studio di ogni grado e livello. Il 14 marzo è stata annunciata la chiusura delle frontiere e il limite agli assembramenti sopra le 30 persone, mentre due giorni dopo è stato proclamato lo stato di emergenza nazionale. Il 22 marzo l’intera provincia di Guayas è stata dichiarata “zona di sicurezza nazionale”, dando di fatto la gestione della crisi in mano alle Forze Armate.
Tra le misure adottate dalle autorità in risposta all’emergenza non sono mancati alcuni esercizi di maldestro populismo. Esemplare in tal senso è quanto successo il 18 marzo a Guayaquil, quando la Sindaca, Cynthia Viteri, del Partito Social Cristiano, ha imposto l’occupazione con veicoli dell’esercito della pista su cui sarebbe dovuto atterrare un volo KLM per il rimpatrio dei cittadini europei nel Paese. Il giorno seguente Cynthia Viteri si è vantata di “aver difeso Guayaquil” da 11 membri dell’equipaggio della compagnia olandese, e ha annunciato di aver contratto il Covid-19.
Ma in un Paese dove il 46% della popolazione lavora nel settore informale, più che per le misure populiste (cui va aggiunta la decisione del Presidente Moreno di ridursi del 50% lo stipendio) c’era grande attesa per l’annuncio delle misure economiche cui spetterà l’incarico di impedire il collasso del sistema produttivo e sociale già provati da anni di rallentamento economico.
Tali misure sono state annunciate venerdì 10 aprile e includono la creazione di un fondo di assistenza nazionale che, nelle intenzioni dei suoi promotori, assicurerà l’assistenza medica, l’accesso a beni alimentari e la conservazione dei posti di lavoro. Il fondo sarà amministrato da esponenti della società civile sul cui processo di selezione non si sa ancora nulla, cosa che ha fatto sorgere diverse perplessità riguardo le basi legali che permetterebbero a privati l’amministrazione di fondi pubblici.

Per finanziare la creazione del fondo nei prossimi nove mesi le imprese di grandi dimensioni (e cioè con entrate superiori al milione di euro l’anno) saranno obbligate a versare il 5% dei loro introiti, mentre i lavoratori dipendenti con stipendi pari o superiori a 500 dollari vedranno applicata una tassa progressiva che potrà andare dall’1 al 35% del salario. Un trattamento diverso è riservato ai lavoratori della pubblica amministrazione che vedranno decurtato il proprio stipendio del 10% per i prossimo dieci mesi.
Queste misure sembrano destinate a deprimere ulteriormente un’economia che da anni lotta con la recessione, riducendo la capacità di acquisto dei consumatori e rallentando il settore privato su cui si regge la sostenibilità del fondo. La scelta di far ricadere sui privati tanto la responsabilità di gestione del fondo quanto il suo finanziamento prosegue infatti il percorso di privatizzazione della cosa pubblica e deresponsabilizzazione dello Stato intrapreso da Moreno fin dai primi mesi della sua Presidenza.
Per lavoratori informali e persone sotto la soglia di povertà il Presidente ha poi annunciato l’estensione del Bono de Protección dai 950.000 beneficiari attuali a 2 milioni, andando a includere tutti coloro con introiti inferiori ai 400 dollari. La scarsa chiarezza circa le modalità di distribuzione del sussidio ha però portato centinaia di cittadini in difficoltà a rivolgersi in massa agli istituti di credito, aumentando gli assembramenti e con essi il rischio di contagio. Il fatto poi che il sussidio di 60 dollari sia inferiore alla soglia di povertà (stimata in 84,70 dollari al mese) fa pensare che verosimilmente non sarà sufficiente a impedire alle persone di uscire a guadagnarsi da vivere sfidando le ordinanze di contenimento.

L’impressione è che la crisi sanitaria sia stata colta dal governo di Lenín Moreno come occasione per accelerare iniziative di austerità negoziate a inizio 2019 con il Fondo Monetario Internazionale per ridurre il deficit e permettere l’accesso a linee di credito per 4.200 milioni di dollari in tre anni.
Tali misure avevano portato, lo scorso ottobre, a grandi manifestazioni di protesta contro l’aumento del prezzo della benzina, fortemente sovvenzionato dallo Stato. Meno clamore suscitò la riduzione della spesa sanitaria che causò il licenziamento di almeno 3.000 operatori sanitari. La mancanza di risorse per far fronte alla pandemia è stata alla base delle dimissioni, lo scorso 21 marzo, della Ministra della Sanità, in aperta polemica con l’Esecutivo e seguita a breve distanza dal Ministro del Lavoro, Andrés Madero.
Dall’inizio del suo mandato, il 24 maggio 2017, il governo di Lenín Moreno ha visto rimpasti di governo e avvicendamenti tra ministri con cadenza quasi mensile, segno di un evidente caos istituzionale che tradisce l’inadeguatezza delle istituzioni di fronte all’appuntamento con la pandemia. A pagarne le conseguenze sono soprattutto le classi popolari e il 9% di persone che vivono nella povertà estrema.
Come in altre parti del mondo però, tra le categorie poste a maggior rischio dalle misure di contenimento del virus c’è la popolazione femminile. Secondo quanto riportato da Sybel Martinez, vicepresidente del Consiglio di Protezione dei Diritti di Quito, nel primo mese di quarantena sono state segnalate più di 6.800 denunce per violenza di genere, oltre a sei tentati femminicidi e tre femminicidi. Questo avviene a poco più un mese di distanza da quando, a febbraio, Lenín Moreno era stato costretto a scusarsi per le frasi dette durante un convegno a Guayaquil, quando disse che “gli uomini sono perennemente minacciati dal rischio di essere denunciati per molestie” e che “le donne denunciano solo quando a molestarle sono uomini brutti”.
Parafrasando, ora sì, il Presidente Moreno “hay que decir la verdad, por doloroso que sea”. La verità, decisamente dolorosa, è che le riforme di austerità di orientamento neoliberista promosse per assecondare le richieste dei creditori internazionali hanno creato le condizioni peggiori possibili per far fronte a una pandemia come quella che da marzo infuria nel Paese. Tra le strade di Guayaquil muore il sogno di sviluppo dell’Ecuador, ma nessuno vuole raccoglierne il cadavere.