Nel tentativo dicontribuire, in questo momento drammatico per il Venezuela, a capire meglio certi aspetti della sua crisi, proponiamo la traduzione di un articolo dell’economista “chavista critico” Temir Porras Ponceleón sulle origini e l’evoluzione della crisi economica venezuelana, soprattutto nel periodo di governo di Nicolás Maduro. Per altri contributi da noi pubblicati sul Venezuela, vedere qui.
Di Temir Porras Ponceleón*
da Le Monde Diplomatique Argentina
12/01/2019
Il periodo in cui Hugo Chávez ha tenuto in mano le redini del Venezuela (1999-2013) è stato un periodo di conquiste indiscutibili, tra cui la maggiore è stata la riduzione della povertà. Il chavismo può anche vantare risultati più che rispettabili in aree meno prevedibili, come la crescita economica: il Prodotto Interno Lordo (PIL), per esempio, si è quintuplicato tra il 1999 e il 2014 (1). Sicuramente questo spiega i numerosi trionfi elettorali e la longevità della sua egemonia politica. Questo contesto ha permesso di rifondare istituzioni ormai marce attraverso un processo costituente aperto e partecipativo, ricorrendo nel frattempo in maniera sistematica al voto popolare – a tal punto che l’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha dichiarato che in Venezuela “ci sono elezioni tutto il tempo, e quando queste non sono previste, Chávez se le inventa”-. A livello regionale, la Rivoluzione Bolivariana ha contribuito a a rendere possibile la “marea rossa” che ha conquistato la regione nel primo decennio del secolo (2) e ha portato al potere attraverso elezioni forze progressiste, spesso per la prima volta nella storia di paesi che parevano finalmente intenzionati a smettere di essere il “cortile di casa” degli Stati Uniti.
Ció nonostante, la morte di Chávez (a 58 anni, nel marzo del 2013) e la transizione politica che ha portato al potere il suo successore Nicolás Maduro nelle elezioni presidenziali anticipate del 14 di aprile del 2013, hanno inaugurato un nuovo periodo. E hanno imbrogliato le carte.
Dal 2014 il Venezuela attraversa la crisi economica più grave della sua storia, che non solo ha provocato una situazione di disagio sociale, ma ha anche contribuito ad aumentare la polarizzazione politica che caratterizza il paese da ben due decenni. Si è già alzato un muro divisorio tra il governo e l’opposizione che mette a rischio il funzionamento delle istituzioni del 1999.
Il carattere eccezionale di questa crisi si deve anche alla sua durata e intensità. Nel 2018 il Venezuela sta registrando il suo quinto anno consecutivo di recessione economica, con una contrazione del PIL che potrebbe raggiungere il 18%, dopo una caduta tra l’11 e il 14% nel 2017. Visto che lo Stato venezuelano non pubblica dati macroeconomici dal 2015 alcuni pensano che gli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) o i grandi istituti finanziari privati dipingano un panorama più oscuro per via di pregiudizi ideologici. Tuttavia, le cifre governative che si sono filtrate confermano una caduta del PIL del 16,5% nel 2016 (3). Tra il 2014 e il 2017, la contrazione accumulata dell’economia si stabilizzerebbe, così, ad almeno il 30% (4), una caduta paragonabile a quella degli Stati Uniti tra il 1929 e il 1932 durante la Grande Depressione.
Una strategia incomprensibile
Le cause iniziali del rallentamento economico registrato dal 2014 non generano nessun dubbio. Nel giugno di quell’anno i prezzi internazionali del petrolio, che rappresentano il 95% del valore delle esportazioni venezuelane, raggiunsero un punto massimo prima di crollare, passando da 100 a 50 dollari al barile in sei mesi e, poi, a 30 dollari nel gennaio del 2016. Però, contrariamente a quello che suggerirebbe il senso comune, le stesse cause non producono in maniera meccanica gli stessi effetti: tutto dipende dalla strategia che si mette in pratica per farvi fronte. In un contesto di shock esogeno di rara violenza la strategia scelta dalle autorità venezuelane genera perplessità. E questo, soprattutto perché l’economia già stava dando segni di fragilità molto prima della caduta dei prezzi del barile.
Nonostante un livello di inflazione strutturalmente alto (5) (a doppia cifra perfino in tempi “normali”), il governo del presidente Maduro ha deciso di mantenere una politica di controllo del tipo di cambio che imponeva una parità fissa della moneta nazionale, il bolívar, di fronte al dollaro statunitense. Non era necessario fare nient’altro per ravvivare l’appetito di alcuni che presto hanno compreso che il meccanismo gli consentiva di comprare un titolo sicuro (la moneta statunitense) a un prezzo molto inferiore al suo valore reale. Al favorire in questo modo la fuga di capitali, la politica valutaria del governo ha trasformato il paese in un immenso colabrodo di biglietti verdi (6).
Fino al 2014 le entrate petrolifere hanno continuato ad essere abbondanti. Però il valore delle importazioni (di frequente gonfiate) non smetteva di aumentare, visto che alimentava la strategia di accumulazione comune alle borghesie dei paesi ricchi di petrolio: la “cattura della rendita”, che consiste nel trasformare le riserve petrolifere in dollari, utilizzare quei dollari per stimolare la moneta nazionale e, di conseguenza, il potere d’acquisto della popolazione e, infine, aumentare le vendite del settore importatore di beni di lusso per l’élite. Però a un certo punto il prezzo del petrolio ha iniziato a cadere…
Lo Stato ha deciso di finanziare il proprio deficit fiscale (la differenza tra il totale delle sue spese e quello delle sue entrate) ricorrendo alla famosa “stampa di banconote” e di ridurre le proprie importazioni diminuendo la vendita di dollari nel mercato ufficiale. Questa doppia decisione ha sancito l’inizio della penuria alimentare (7) e ha liberato le tendenze inflattive, che presto sono andate fuori controllo: essendo disponibile una massa monetaria (la quantità di banconote in circolazione) crescente per una quantità decrescente di beni e servizi, l’aumento dei prezzi era inevitabile.
Il prezzo del dollaro, dunque, cercato tanto dagli importatori come per il suo essere un valore rifugio, è salito ale stelle nel mercato nero. Rapidamente il valore del dollaro “parallelo” ha iniziato a funzionare come referenza nella vita quotidiana per la fissazione del prezzo dei beni e dei servizi. Mentre l’aumento dei prezzi erodeva rapidamente i salari e le finanze pubbliche lo Stato ha cercato di sostenere il potere d’acquisto mettendo sempre più banconote in circolazione. Tra il 2014 e il 2017 la massa monetaria è aumentata dell’8.500%. C’erano tutti gli ingredienti affinché l’economia entrasse in iperinflazione. L’indice dei prezzi al consumatore (un’unità di misura classica dell’inflazione) è passato dal 300% nel 2016 al 2000% nel 2017. Nel 2018 le stime variavano tra il 4.000% e il 1.300.000%. In quest’ultimo caso, concretamente, un bene comprato a un valore di 1.000 bolivar il primo gennaio del 2018 ne costerebbe 13.000.000 il 31 dicembre.
Complicazione ulteriore: 2016 e 2017 sono stati anni di importanti scadenze dei pagamenti del debito. Nonostante le entrate del petrolio fossero in caduta libera il governo Maduro – seguendo in questo la dottrina di Chávez – ha scrupolosamente rispettato i suoi impegni. Almeno fino a dicembre del 2017. In quel momento, in un discorso in televisione, il presidente ha annunciato che tra 2014 e 2017 il paese aveva speso la somma colossale di 71.700 milioni di dollari di debito.
Ancora una volta la strategia del potere per rispondere alle difficoltà suscita numerosi interrogativi. Decidere di pagare i debiti implica “monetizzare” asset della nazione, in altre parole consegnarli in garanzia, o addirittura venderli, per riunire le somme di cui lo Stato ha bisogno. In questo periodo il Venezuela ha utilizzato varie volte l’oro delle riserve internazionali e altre volte è ricorsa ai suoi diritti speciali di prelievo (DPS) dell’FMI (8). Quando non ha chiesto direttamente prestiti alle compagnie petrolifere di paesi alleati, come la russa Rosneft, consegnando come garanzia il 49.9% delle azioni dei suoi asset più preziosi, o come l’impresa petroliera di raffineria Citgo, la cui sede e le cui operazioni si trovano negli Stati Uniti.
Nel settembre del 2016, la compagnia petrolifera nazionale PDVSA ha proposto ai suoi creditori uno scambio di obbligazioni che, per prolungare di (soli) tre anni la scadenza di una serie di titoli (dal 2017 al 2020), offriva come garanzia il 50.1% restante del capitale di Citgo, mettendo così in pericolo il controllo di questa società da parte di PDVSA in caso di default del pagamento. Questa operazione di rifinanziamento parziale, l’unica sotto la presidenza Maduro, non ha attirato nient’altro che fondi speculativi, tentati dall’ipotesi di un default che gli permetterebbe di appropriarsi della raffineria statunitense.
Sussistono alcune domande: perché lo Stato si è sentito in obbligo di pagare, in tempo e nelle modalità stabilite, fino all’ultimo centesimo del suo debito, mentre dal 2014 le sue entrate cominciavano a diminuire? Perché, senza che nemmeno fosse necessario entrare in default, non ha cercato di procedere a una rinegoziazione globale con i suoi creditori? L’accesso ai mercati dei capitali è diventato sempre più difficile e caro nella misura in cui la situazione si aggravava, però era ancora possibile un negoziato con la Cina, partner finanziario chiave del Venezuela che ha continuato a fornirgli denaro fresco (disgraziatamente in quantità insufficienti) fino ad oggi.
Stranamente è stato solo dopo che l’amministrazione statunitense imponesse sanzioni finanziarie contro il governo venezuelano e PDVSA, nell’agosto del 2017, che Maduro ha annunciato la sua volontà di rinegoziare i termini del debito, essenzialmente nelle mani di grandi fondi di pensione statunitensi. Ora, le sanzioni di Washington avevano precisamente l’obiettivo di proibire agli istituti statunitensi di partecipare nel rifinanziamento di Caracas. In altre parole, il Venezuela ha aspettato che l’opzione non fosse più praticabile per considerarla. Nel dicembre del 2017, il Venezuela inaugurava un default selettivo non pagando alcuni interessi del debito, o facendolo con estremo ritardo.
Paradossalmente questa situazione non avrebbe di fatto nient’altro che un’importanza secondaria se la produzione petrolifera non fosse crollata, passando da quasi tre milioni di barili al giorno nel 2014 a meno di un milione e mezzo nel 2018. Come nel caso dell’inflazione, la caduta della produzione petrolifera ha portato il paese al centro di una spirale infernale: la produzione cade a causa della crudele assenza di capitali necessari per gli investimenti, però questo crollo riduce le entrate del paese, limitando a sua volta ulteriormente le prospettive della produzione petrolifera…
Radici macroeconomiche della crisi
Con le spalle al muro, il governo Maduro denuncia una “guerra economica” fomentata dal capitale privato, nazionale e internazionale – di cui nessuno dubita che non senta né affetto né ammirazione per Caracas -. Segnalare un colpevole può dare un senso politico alle difficoltà, però aiuta a risolverle?
Occupato a denunciare le manovre dell’ “impero” e dei “controrivoluzionari” durante il suo primo mandato, Maduro ha rifiutato di adottare una strategia propriamente macroeconomica per rispondere alle sfide che affrontava il paese. Nonostante l’aggravarsi della crisi avesse dato alla destra, nel dicembre del 2015, una maggioranza di due terzi nell’Assemblea Nazionale, agli inizi del 2016 è stato nominato capo dell’equipe economica il giovane professore di sociologia Luis Salas, il cui celebre mantra è: “l’inflazione non è una realtà”.
Considerando dunque che l’inflazione era causata dalla deliberata penuria dovuta al ritiro dei prodotti dal mercati e/o all’inflazione artificiale dei prezzi – in altre parole un progetto di sabotaggio economico -, il governo ha concentrato tutti i suoi sforzi nel controllo dei prezzi. Una legge sui “prezzi giusti” ha addirittura limitato al 30% i margini autorizzati per tutti coloro che intervengono nelle catene di produzione e distribuzione. Questo approccio ignora che l’inflazione dipende da meccanismi macro-sociali che è estremamente difficile, se non impossibile, contenere forzando gli individui – almeno se non vengono corretti i fondamenti macro-economici che producono la crescita dei prezzi-. A cosa serve regolare il prezzo di un bene molto prezioso, una medicina importata per esempio, se l’incremento esponenziale della massa monetaria implica che necessariamente troverá un acquirente nel mercato nero a un prezzo molto maggiore?
Quando il processo inflattivo si attiva la paura generata mette in movimento una meccanica indiavolata per la quale uno, volendo proteggersi contro un aumento anticipato dei prezzi, aggiusta il proprio e, facendolo, contribuisce a quell’aumento generalizzato. Una logica devastante: i prezzi non si fissano più in relazione al costo della produzione, ma in relazione a quello che si stima che ci sarà da pagare per produrlo nuovamente in futuro, o ai margini necessari per la preservazione del suo potere d’acquisto in un contesto generale di iperinflazione. I grandi commercianti e industriali venezuelani sicuramente partecipano all’ampliamento dell’onda speculativa volendo preservare i suoi margini in detrimento dei consumatori. Tuttavia, è erroneo attribuirgli la capacità di generare da soli questa situazione, che non sarebbe materialmente possibile senza un’espansione irrazionale della massa monetaria.
Il presidente Maduro si era mostrato scettico in quanto all’opportunità di operare un cambio rotta economico. In un discorso pubblico di fronte a produttori agricoli, ha denunciato “quegli economisti che vogliono darci lezioni però che non piantarono mai un pomodoro in vita loro”, prima di specificare che la Rivoluzione Bolivariana “non segue i dogmi né le ricette di quei macro-economisti che pensano di sapere tutto” (12 settembre 2017).
È ottimo che responsabili politici esprimano la loro indipendenza di analisa rispetto a un certo macro-economicismo che di frequente esige un monopolio tecnocratico sulla condotta della politica. Tuttavia, decidere gli orientamenti macro-economici di un paese senza considerare qualunque considerazione tecnica a volte rappresenta il cammino più diretto verso la catastrofe.
Combattere l’ossessione dell’equilibrio fiscale? È una causa giusta, sempre che i deficit non siano di più del 20% del PIL per quattro anni consecutivi, e addirittura senza che abbiano alcun impatto positivo – al contrario, piuttosto – sulla riattivazione dell’attività, il potere d’acquisto o la distribuzione tra capitale e lavoro dei frutti che ci si aspetta da quella politica. Aumentare i salari per proteggere la classe operaia dall’impatto negativo dell’inflazione sul potere d’acquisto? Una condotta lodevole, però solo se si è riusciti ad abbattere l’idra inflattiva che divora ogni crescita nominale dei salari. Certamente l’audacia di cui da prova il governo bolivariano per liberarsi del formalismo nella scelta degli alti funzionari genererebbe l’invidia di molti militanti di sinistra ad altre latitudini; però svela una certa imprudenza quando porta a cambiare due volte il presidente della Banca Centrale in meno di due anni, avendo come unica continuità l’inesperienza di ogni nuovo responsabile.
C’è stato bisogno di aspettare la rielezione di Maduro, il 20 maggio 2018, perché si annunciasse un piano di riforme economiche e tre mesi in più perché si svelasse il suo contenuto, lo scorso 17 agosto. Facendo un giro di 180 gradi il presidente ha riconosciuto che esistono radici macroeconomiche nel fenomeno dell’inflazione, prima di annunciare che da allora in poi lo Stato si sarebbe imposto una disciplina di ferro, fissando come meta il deficit fiscale zero. Altro cambio radicale: la moneta nazionale è stata svalutata e il suo prezzo iniziale in dollari fissato al tasso del mercato nero, che fino ad allora era stato chiamato “dollaro criminale”. Per qanto riguarda il valore del nuovo “bolivar sovrano”, che prende il posto dell’antica moneta a cui vengono tolti cinque zeri, si darà una parità fissa relativamente a una criptomoneta chiamata “Petro”, il cui valore segue teoricamente il prezzo del barrile (vedi riquadro in fondo all’articolo).
Come prova dell’orientamento di apertura economica, il governo ha derogato la legge di “illeciti valutari”. Nella stessa occasione, ha annunciato la libera convertibilità del “bolivar sovrano”, sebbene in realtà sia inapplicabile a causa del livello bassissimo delle riserve internazionali. Da ora in poi gli individui e le imprese possono scambiarsi valute di comune accordo, però devono rispettare i tassi fissati dalla Banca Centrale, e ciò ha fatto riapparire di fatto un mercato nero in cui il dollaro si cambia a tassi maggiori.
Il salario minimo reale, che era diminuito da 300 a circa un dollaro al mese in quattro anni, è stato elevato del 3.000% per raggiungere i circa 30 dollari al mese. D’altra parte il governo ha annunciato che da ora in poi sarà indicizzato al Petro, con la speranza di preservare il suo potere d’acquisto. Tuttavia, senza che le modalità pratiche di questa indicizzazione fossero state spiegate, giv aveva perso il 50% del suo valore solo due mesi dopo essere stato aumentato. Il governo, anticipando un forte impatto sui prezzi, si è impegnato a prendersi in carico il costo dell’aumento dei salari nel settore privato per tre mesi. Strana disposizione: non ha fatto altro che rinviare l’impatto del suo costo sui prezzi al consumatore e, di conseguenza, sull’inflazione. Con l’obiettivo di aiutare i salariati a sopravvivere tra la data dell’annuncio e il primo giorno di pagamento, è stato concesso un buono equivalente a 10 dollari a tutti coloro che dispongono del “carnet della patria”, un documento d’identità vincolato a una base di dati controllata dalla presidenza, richiesto per essere beneficiario dei programmi sociali emblematici del governo, come le casse alimentari a basso prezzo.
In quanto alle entrate, il governo ha aumentato l’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA) di quattro punti e ha fatto alcune disposizioni tecniche per riscuotere meglio le imposte alle imprese. Però, senza un ritorno alla crescita, sarà difficile che queste misure siano sufficienti. C’è poi da dire, d’altra parte, che questo programma fortemente espansivo è in totale contraddizione con l’obiettivo dichiarato di “deficit zero”. Di fatto, verso metà settembre 2018, meno di un mese dopo gli annunci di Maduro, la base monetaria è tornata ad aumentare a un ritmo del 28%… settimanale.
Pericolosa fuga in avanti
Al di là del dibattito sulla coerenza e l’efficacia delle misure annunciate, la questione continua ad essere quella di sapere se un programma economico, sia quale sia, è in grado da solo di rimettere in piedi il Venezuela. In effetti, come può un paese che ha perso più della metà della sua produzione petrolifera e più di un terzo del suo PIL in cinque anni invertire la tendenza, quando le sanzioni statunitensi gli proibiscono l’accesso al finanziamento internazionale? Ha senso cercare di tranquillizzare gli investitori proclamando la propria adesione al dogma dell’equilibrio fiscale quando la sospensione del Parlamento fa sorgere dubbi sulla legalità stessa della legge finanziaria o delle concessioni o contratti stabiliti dall’esecutivo?
Tra la sua elezione, nell’aprile del 2013, e il crollo dei prezzi del greggio, nel 2014-15, Maduro è stato padrone del suo destino: la principale difficoltà con cui si imbatteva era la inadeguatezza della sua politica economica. Dopo la sua sconfitta nelle elezioni legislative del dicembre 2015 e la sospensione del Parlamento deciso a farlo cadere, la crisi istituzionale ha aperto il cammino a una radicalizzazione delle azioni dell’opposizione, prima nel fronte interno con la violenza insurrezionale, poi a livello internazionale con la strategia di isolamento diplomatico e lo strangolamento finanziario. Nell’agosto del 2017, dopo sei mesi di violenza e la costituzione di un’Assemblea Nazionale Costituente fedele a Maduro, le sanzioni di Washington – accompagnate da manovre per favorire un colpo di Stato a Caracas (9) – hanno complicato ancora di più la situazione.
Perché la discesa agli inferi venezuelana si è prodotta mentre il continente americano viveva un profondo cambiamento politico. Tra il 2015 e il 2017 i principali bastioni del progressismo sudamenricano, cominciando con Argentina e Brasile, sono caduti nelle mani di coalizioni di destra. Questi governi conservatori, animati da uno spirito di vendetta, non solamente hanno manipolato la giustizia per mandare i carcere i loro avversari di sinistra, ma hanno anche coordinato le loro azioni a livello regionale per mettere fine a un simbolo: la “Rivoluzione Bolivariana” iniziata da Chávez.
Per un certo tempo relegata in secondo piano sotto il peso della “marea rossa” che ha investito il continente agli inizi del XXI secolo, l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), braccio esecutivo del progetto “panamericanista” di Washington, è tornata al suo ruolo tradizionale grazie alla spinta di un uomo inaspettato. Luis Almagro, che aveva appena terminato le sue funzioni di ministro degli esteri del governo progressista in Uruguay (10), è diventato segretario generale nel maggio del 2015, grazie all’appoggio di una sinistra latinoamericana ancora maggioritaria in quell’epoca. Con una certa rapidità si è sentito investito di un ruolo di difensore della democrazia continentale, però individuandone le minacce solo tra i suoi antichi amici politici. Spogliandosi della prudenza diplomatica che è indispensabile per rendere possibile una mediazione, ha preso partito per l’opposizione venezuelana, arrivando al punto di favorire la violenza insurrezionale durante tutto il 2017.
Per quanto riguarda il delicato tema cubano, sul quale nel 2009 era emerso un blocco regionale contro gli Stati Uniti per mettere fine all’ostracismo che soffriva la isola fin dalla Guerra Fredda, Almagro anche in questo caso si è affrettato ad abbracciare la linea delle destre estatunitense e europea. In mancanza di una maggioranza di due terzi, necessaria per iniziare un processo di sospensione del Venezuela dall’organizzazione emisferica, il diplomatico uruguayano ha favorito la creazione di una coalizione di governi conservatori che, sotto il nome di “Gruppo di Lima”, ha cercato di lanciare l’immagine di un consenso regionale intorno a posizioni più dure contro Maduro. Alcuni membri del gruppo hanno chiesto addirittura di portare il presidente venezuelano alla Corte Penale Internazionale (CPI). L’entrata in funzioni di Trump ha reso ancora più chiara la svolta spettacolare di Almagro: il suo accordo con l’occupante della Casa Bianca risulta così profondo che fu l’unico responsabile latinoamericano ad appoggiare l’idea di un intervento militare, ipotizzata dal presidente repubblicano.
Lontana dallo spingere gli attori venezuelani verso un accordo politico, questa fuga in avanti regionale li ha allontanati. Una quantità importante di dirigenti dell’opposizione vivono ora in esilio volontario o obbligato; così, non dispongono più di strategie internazionali, che oggi sembrano limitarsi a sanzioni aggiuntive o a un intervento militare. Le prime sono la garanzia dello status quo politico sommato a una penuria economica ancora più grave; la seconda farebbe precipitare nella catastrofe.
Sebbene sia necessario che la condotta economica del Venezuela recuperi il cammino della ragione, la crisi continuerà in assenza di una soluzione dei contenziosi politici. Nessun piano proposto dal gruppo che sta al potere – per pertinente che sia – permetterà di aumentare le sanzioni o ristabilire le garanzie giuridiche. Il dialogo con l’obiettivo di un accordo di coesistenza politica tra il governo e l’opposizione offre la forma più semplice (e la più pragmatica) di impedire che il paese sprofondi nell’abisso. Invece di incitare le divisioni, la comunità internazionale dovrebbe orientare tutti i suoi sforzi in questa direzione.
Una moneta dal valore incerto
Creato nel 2017, il “Petro” è una “criptomoneta” emessa dallo Stato venezuelano. Il suo valore è garantito dall’equivalente di cinque milioni di barrili di petrolio che giacciono nel sottosuolo di un grande blocco ubicato nella striscia dell’Orinoco, la maggior riserva di petrolio del pianeta. All’acquisto del Petro, il suo proprietario acquisirà lo stesso tempi i diritti su un barrile di petrolio di tale blocco.
Il progetto suscita due problemi. Una volta spogliato dai neologismi vincolati al mondo della criptomoneta – di moda alcuni anni fa -, il Petro assomiglia stranamente a una semplice emissione di debito sovrano. Ora, per essere legale, ogni nuova emissione richiede l’approvazione dell’Assemblea Nazionale, con cui il governo venezuelano si trova in conflitto aperto da quando questa è controllata dall’opposizione. D’altra parte, la produzione petrolifera mantiene una curva discendente senza dare segni di recupero; questo complica la stima del valore di un greggio ancora sotto terra, la cui estrazione futura avrebbe bisogno di importanti investimenti che Caracas non può permettersi per il momento. Di fatto, il blocco “Ayacucho 1”, consegnato come garanzia del Petro, continua a non produrre nulla.
*Temir Porras Ponceleón è stato consigliere di Hugo Chávez in temi di politica estera (2002-2004), ex capo di gabinetto di Nicolás Maduro (2007-2013) ed ex vice ministro degli Affari Esteri, oltre ad aver ricoperto altri incarichi nei governi venezuelani tra 2002 e 2013.
Traduzione a cura di Pérez Gallo
Note:
1. Passando da 98.000 millioni a 482.000 milioni di dollari.
2. Si veda William I. Robinson, “Les voies du socialisme latino-américain”, Le Monde diplomatique, París, noviembre de 2011.
3. Questa cifra è stata resa pubblica in maniera indiretta attraverso il modulo “18K” che il governo venezuelano ha presentato nel dicembre del 2017 all’autorità dei mercati finanziari degli Stati Uniti (SEC), in quanto emissore del debito nel mercato statunitense.
4. Anabella Abadi, “4 años de recesión económica en cifras”, Prodavinci, 28-12-17, prodavinci.com
5. Nel caso del Venezuela, l’inflazione strutturale si spiega con la propensione del paese a reciclare la propria crescita economica in importazioni prima che nello sviluppo del proprio apparato produttivo (cioè, della sua capacità di produrre quello che consuma).
6. Questo meccanismo, così come il contesto generale che ha portat alla crisi, è spiegato in Renaud Lambert, “Contrarrevolución en la contrarrevolución”, Le Monde diplomatique, edición Cono Sur, Buenos Aires, diciembre de 2016.
7. Si veda Anne Vigna, “Hacer las compras en Caracas”, Le Monde diplomatique, edición Cono Sur, noviembre de 2013.
8. “Il DEG è un asset di riserva internazionale creato nel 1969 dall’FMI per integrare le riserve officiali dei paesi membri” (sito internet dell’FMI).
9. Nicholas Casey y Ernesto Londoño, “US met Venezuela plotters”, The New York Times, 10-9-18.
10. Quello del presidente José “Pepe” Mujica (2009-2014) e della coalizione del Frente Amplio.