I fannulloni della cultura italiana all'estero (risposte all'articolo dal sito del SOLE24-ORE)

Riporto l’articolo di Riccardo Chiaberge apparso sul sito del Sole – 24ore e che ha scatenato un dibattito interessante sugli Istituti Italiani di Cultura operanti all’estero e sugli italiani all’estero in generale. Seguono due commenti significativi…

Se rischiamo di essere estromessi dagli europei di calcio, come ci piazzeremo nelle Olimpiadi dell’arte e della creatività? L’equivalente della squadra azzurra, in questi campi, è la rete degli Istituti italiani di cultura. Sono ben 88 sparsi in altrettante città di tutti i continenti, da Tirana a Caracas. Dovrebbero essere un punto di riferimento per i nostri connazionali all’estero e una piattaforma di lancio per scrittori, artisti, cantanti.
Ma non fanno bene né l’uno né l’altro mestiere. I dieci istituti più importanti, come Londra, New York o Parigi, sono retti da direttori «di chiara fama» che restano in carica da due a quattro anni. Alcuni si mostrano all’altezza della loro fama, altri no. Ma procurano comunque un danno limitato. Il vero problema è il personale, gli «addetti culturali» e i «contrattisti» che lavorano (o dovrebbero lavorare) alle loro dipendenze.
Gli addetti culturali (due o quattro per ogni sede, di cui molti ex-professori d’inglese o tedesco delle scuole medie in soprannumero, presi in carico dalla Farnesina e spediti nel mondo), per lo più sanno poco della cultura del loro paese e meno ancora del paese in cui si trovano, ma vengono pagati come superesperti (otto-diecimila euro al mese) e si comportano da impiegati statali. Il direttore di un importante istituto racconta di aver convocato una riunione un pomeriggio alle 16,30 con due suoi «addetti» e questi dopo 25 minuti si sono alzati, perché era finito il loro orario giornaliero: «Se no facciamo straordinari e poi ce li deve dare come recupero». Il contratto prevede 36 ore e 17 minuti la settimana di presenza. Ogni minuto in più va a sommarsi al già cospicuo «monte ferie» (42 giorni se la sede è «disagiata», cioè extraeuropea: come se stare a Tokio o a New York comportasse disagi tremendi).
Alcuni di questi signori girano il mondo da vent’anni, cinque anni a Londra, cinque a Buenos Aires, e magari non parlano nemmeno la lingua del posto. Sono i Rom della cultura, un’emergenza per l’erario che il ministro Brunetta dovrebbe affrontare con la stessa «tolleranza zero» che si usa per i campi nomadi. Poi ci sono gli stanziali, legati indissolubilmente a una sede finché morte non li separi: chiamati «contrattisti», sono impiegati che guadagnano circa la metà degli «addetti». Molti sposano indigeni o indigene e si fanno una famiglia in loco, perdendo ogni legame con la lingua e la cultura d’origine. Se gli nomini Ozpetek, Saviano o Cattelan, sgranano gli occhi: loro sono rimasti fermi ai tempi di Pavese e Sofia Loren. Molti non si prestano nemmeno più a fare gli interpreti, ruolo che cedono volentieri ai giovani locali, disposti a lavorare 10-12 ore al giorno per mille euro mensili.
Ci sono per fortuna le eccezioni, funzionari colti e volonterosi, che fanno onore al Paese. Ma devono remare controcorrente in un oceano di mediocrità e di fannullaggine. E i direttori non hanno nessun potere di promuoverli, come non ne hanno di licenziare gli ignoranti. Così, invece di esportare il made in Italy artistico e letterario, diffondiamo nel mondo due prodotti tipicamente nostrani: la burocrazia e l’incultura.

 

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RISPOSTE DAL MESSICO:
Fabrizio Lorusso
Ieri sera, alla luce dei fatti, l’Italia ha passato il turno per i quarti di finale dell’europeo e, simultaneamente, alcuni commenti hanno ridimensionato i toni dell’articolo del Sig. Chiaberge.
E’ decaduto, quindi, il paragone calcistico che ci inviava al campo santo anche all’estero per essere stati troppo inefficienti in BEN 88 Istituti Italiani di cultura sparsi nelle BEN 200 nazioni del globo.
Rimane sulla rete la provocazione fannullona e piccante di una penna ardita e poco informata nel senso che, forse, proprio perchè le realtà sono molte e variegate, allora è difficile conoscerle tutte adeguatamente e “fare di tutte le erbe un fascio”. A questo servono le continue segnalazioni e risposte sul blog che stanno integrando gli interventi di tipo più riflessivo con preziose testimonianze dirette su quanto avviene all’estero tra noi italiani che qui costruiamo un’altra Italia, spesso più rinnovata e creativa di quella che rimane sul territorio a ipotizzare identità fuorvianti e fantasiose per i famigeratio “italiani all’estero”.
A fronte delle diversità delle situazioni nazionali degli Istituti di Cultura, l’improbabile generalizzazione del Sig. Chiaberge lascia intravvedere una posizione ideologica avversa al settore pubblico tout court piuttosto che una sana e produttiva volontà di critica dell’operato di funzionari precisi e politiche culturali specifiche che vengono solo vagamente abbozzate nel suo post. Come si possono trovare esempi di sperperi ed eccessi, che vanno segnalati adeguatamente, si devono anche trovare (e sicuramente in maggior quantità) tutta una serie di iniziative di promozione e diffusione culturale che fanno onore al nostro paese e che vengono orchestrate e gestite da numerose figure profesionali.
Tra questi contiamo i direttori, gli addetti culturali, i contrattisti MAE, tanto vituperati nell’articolo, ed anche il personale contrattato in loco, i docenti di linguacultura italiana e tutti i portatori d’interesse legati all’istituzione.
Ciascuna di queste persone apporta forze e risorse differenti, sotto condizioni profondamente diverse, alla causa della promozione culturale dell’Italia all’estero. Possiamo provare a distinguere, elencare, documentare e capire chi siano e che cosa fanno in ogni paese senza cadere in generici esercizi d’opinionismo?
Come già molti interventi hanno implicitamente segnalato, a fronte di ogni anedotto, reale o fittizio, raccontato circa l’inettitudine del dipendente pubblico e volto a rafforzarne lo stereotipo di “fannullone”, potremmo citarne altrettanti che lo ribaltano.
Allora diciamo basta alle mezze verità e raccontiamo anche i successi e non solo gli eccessi per non cadere nel qualunquismo e nel catastrofismo ideologico anti-statalista.
Lo Stato sbaglia e il mercato, anche.
A volte, però, i dati e le ricerche serie ci aiutano a sbagliare un po’ meno e andrebbero citati un po’ di più quando si questiona il funzionamento di un sistema. Cito l’articolo: sono i Rom della cultura? Un’emergenza per l’erario? Sposano indigene e indigeni? Tolleranza zero?
Sig. giornalista,
Ma quali dolci fraseggi rimasticati e diffusi da qualche mese soprattutto dalle TV e, in questa occasione, dalla rete, deve mai scorgere il mio occhio sullo schermo oggi?
Non prendo le difese di chi non fa nulla e vive sulle spalle degli altri, cosa deprecabile che sì accade in numerosi contesti lavorativi; ciononostante, un post (o articolo) su un giornale serio e competente dovrebbe arricchire realmente le conoscenze e mettere a fuoco i punti d’osservazione del lettore, non propagare stereotipi. Infine, mi piacerebbe che potessimo affrontare il problema della spesa pubblica da un’altra angolazione senza valutare le scelte matrimoniali dei contrattisti (categoria di cui non faccio parte).
In attesa di una Sua pronta risposta, porgo distinti saluti.
Fabrizio Lorusso ( http://fabriziolorusso.wordpress.com )
(professore di linguacultura italiana in Messico)

Gentile signor Chiaberge,
leggo il suo articolo e l’unica sensazione che provo è quella della “tristezza”. Tristezza dettata dalla constatazione del fatto che la stampa italiana è ancora intrisa di cotanta frequentazione con il luogo comune e con suo cugino, lo stereotipo. Di questi tempi, poi, in cui parlare di “pubblico” equivale a bestemmiare e solo il “privato” appare come cammino che porta alla salvezza, il suo “pezzo” appare come un assist (spero involontario) per la testa di qualche centravanti di sfondamento, voglioso di metterla nel sacco del servizio pubblico.
Sono il presidente del Comites del Messico, istituzione a suffragio universale che, come lei sicuramente saprà, rappresenta gli interessi dei connazionali residenti in un determinato Paese di fronte al proprio Governo. Rappresento, insieme agli altri consiglieri, una collettività che si misura ogni giorno con funzioni e, ovviamente, disfunzioni dell’Italia in Messico.
In tanti anni, l’Istituto Italiano di Cultura ha attraversato -come ogni cosa umana- diverse fasi, alcune delle quali anche negative per quanto riguarda il proprio livello di “produttività” e le relazioni con gli italiani qui residenti; attualmente, però, grazie anche all’opera costante e infaticabile di un gruppo di professionisti assolutamente all’altezza del compito affidato loro, il “nostro” istituto rappresenta un punto di riferimento sicuro per la Cultura italiana in Messico. Negli ultimi mesi, sotto la guida di Davide Scalmani (nelle sue funzioni di reggente) e dell’esperto accademico Franco Avicolli, e grazie alla forza di propulsione generata dalla professionalità di un gruppo straordinario di docenti, l’Istituto Italiano di Cultura ha dimostrato con i fatti che quanto lei scrive non risponde alla Verità, semmai a una delle molte realtà che si possono incontrare in giro per mondo.
Ora, capisco che il gusto della crociata a volte sia assolutamente irresistibile, è comprensibile anche se l’informazione, per essere tale, dovrebbe esserne immune e dedicarsi piuttosto alla ricerca dei fatti e non degli aneddoti. È vero che esistono funzionari e dipendenti pubblici che ci rappresentano all’estero che non fanno il proprio lavoro, professori, direttori, consoli e perfino ambasciatori, ma di lí ad affermare che sono tutti uguali, che buttiamo via i nostri soldi, che solo le eccezioni ci salvano da una situazione insostenibile, beh, caro signor Chiamberge, ce ne corre.
Lei col suo sfogo da terza crociata, non fa che alimentare il pregiudizio, la sfiducia del cittadino nelle istituzioni, l’idea liberista del dipendente pubblico come sanguisuga e parassita. Con lei saranno d’accordo certo quelle centinaia di migliaia di persone che criticano tutto, che parlano male delle biblioteche comunali ma non ci hanno mai messo piede, che gridano a mari e monti che i loro istituti di cultura non funzionano, ma non sanno nemmeno quale sia il loro indirizzo.
Il fatto che siate molti non cambia la sostanza.
Alla luce dei fatti messicani e conoscendo altre importanti realtà che fanno grande l’Italia nel mondo, io credo invece che lei debba delle scuse a quanti, facendo fronte a una politica culturale dei nostri governi –questa sí disastrosa- riescono sempre e comunque a rendere presente l’Italia nei Paesi dove operano.
Chieda scusa, perfavore, a tutti quei lettori, docenti, direttori (di chiara fama e non), esperti, bibliotecari, telefonisti che, malgrado l’inettitudine di una patria spesso cieca, sorda, inefficiente e disinformata, mantengono vivo nei Paesi dove operano il mito dell’Italia… Sí, proprio il mito, perché loro, che –malgrado lei dica il contrario- conoscono perfettamente la cultura contemporanea del nostro Paese, sono gli unici che fanno qualcosa –insieme alle molte associazioni culturali presenti sul territorio- perché questa cultura arrivi ai nostri anfitrioni, ben al di là di Giotto, di Beppino Di Capri e del neorealismo italiano.
La sa una cosa? Il suo articolo non fa che confermare un dubbio che molti noi hanno maturato da quando vivono all’estero: che se c’è qualcuno che dovrebbe riempire un vuoto culturale, questi siete voi italiani in Italia che, voi sí fermi alle navi transoceaniche e alle valigie di cartone, avete un’idea dell’Italia all’estero totalmente distorta e frutto, non me ne voglia, di una sacrosanta ignoranza.
Sabato prossimo il Comites del Messico, grazie allo straordinario appoggio dell’Istituto Italiano di Cultura, inaugurerà l’esposizione pittorica, fotografica e scultorica degli “Artisti italiani in Messico”. Una briciola della nostra vita culturale italiana in questo grande Paese, la dimostrazione di come esista un mondo italiano che si sviluppa a vostra insaputa, prigionieri come siete dei votri pregiudizi e della tristissima cultura delle crociate.
Un saluto cordiale,
Paolo Pagliai
Presidente Comites del Messico
Sig. Chiaberge:
le scrivo dal Messico, dove svolgo le mie attivitá professionali: giornalista, ricercatore e docente di linguacultura italiana presso l’Istituto Italiano di Cultura di Cittá del Messico. questa mattina mi son svegliato alle cinque e mezzo per poter raggiungere la sede dell’Istituto e offrire i miei servizi da contrattista in qualitá di docente. mi sveglio sempre una mezz’ora prima del dovuto per avere il tempo di sfogliare i giornali consultabili su internet. da questa parte del mondo, la fortuna vuole che si “viaggi” 7 ore indietro rispetto al fuso (o fusi?) italiano. questo mi permette, oggi 18 giugno, di poter conoscere immediatamente sveglio gli esiti del dibattito presso il Senato dell’ennesimo emandamento governativo al cosidetto pacchetto sicurezza. e mi domando, ancora una volta, da buon italiano che risiede e vive all’estero, com’e´possibile che in Italia si facciano cose cosí. e sempre sorge la tentazione di chiedermi con che faccia spiegheró ai miei studenti – che curiosi lo sono rispetto l’Italia, assetati di cultura e informazioni – che in Italia le cose vanno a rotoli. badi bene, non da un mese e mezzo a questa parte, ma da diversi anni. dacché, per esempio, la cultura che lei dice trovare sicuro asilo in patria e venir disprezzata e banalizzata all’estero, in realtá s’é trasformata nella cultura di chi comanda a colpi di spot televisivi, di insulti incrociati e assolutamente bipartisan e che fonda le proprie radici nell’egoismo miope di un popolo cui piace sentirsi tale, ma che nulla ha come nazione. e poi ci ripenso. e giungo in aula, con rinnovato entusiasmo e disposto a proporre e riproporre e difendere quell’Italia di cui ho effettivamente il ricordo. ma stia sicuro che non é il ricordo di una Sofia o di un Cesare, ma piuttosto é memoria, memoria di un’Italia che aveva i valori della pace, della giustizia, che parlava al mondo con il linguaggio della solidarietá e che, a chi in questi anni l’ha denigrata non all’estero ma in patria, non ha mai dato troppo credito ed ha continuato a vivere con dignitá.
é morto Stern qualche giorno fa. il sergente sulla neve. ma se lo ricorda costui? quello sí un uomo di cultura che peró, come tutte le persone colte, ha saputo essere umile e direi anche eroico nel suo silenzio. un’latra razza questa – in questo caso la categoria é utile. ed invece ci ritroviamo nel mondo di chi ha poco o nulla da dire, ma apre bocca – e mette mano alla tastiera del computer – ogni volta che qualcuno gli dice di farlo, riempendo pagine e spazi di dibattito con idee altrui.
non ho molto altro da dire, visto che il collega Paolo Pagliai ha riassunto egregiamente un pensiero comune tra coloro che vivono in Messico e qui costruiscono una comunitá italiana aperta e in continuo dialogo con la differenza che ci ospita. devo solamente aggiungere un ulteriore riconoscimento al personale – di ogni grado e livello – che lavora presso l’IIC della capitale azteca. deve infatti sapere – prima di voler fare d’ogni era un fascio…o proprio quello che vuol fare? – che tra mille difficoltá, presso l’IIC messicano si é riusciti a ristabilire quel che in Italia si va invece perdendo, ovvero un quadro democratico di funzionamento e nell’ambito del lavoro – dalla situazione contrattuale sino all’accademica – e nell’ambito della produzione culturale, che ha permesso di offrire un modello di riferimento del made in Italy che non parla solo di marchi e business, ma piuttosto di capacitá e creativitá poste al servizio del benessere e la crescita della collettivitá, italiana e messicana.
Matteo Dean
p.s.: lascio a questo spazio un ultimo commento sul tono e la prospettiva del suo “pezzo”. mi piacerebbe chiamarla collega, visto che anche a me tocca l’onere – e non il vanto – di scrivere e comunicare; ma ho difficoltá a trovare similitudini con chi oggi assume toni francamente discriminatori e razzisti – che son di moda laggiú in Italia, per caritá, non le rimprovero incoerenza sociale, assolutamente – utilizzando terminologie che non le appartengono e che offendono – ma questo forse non lo sa – le popolazioni indigene di queste terre. purtuttavia lei non ha colpe: di questi tempi, a difendere una categoria come la nostra, “italiani emigranti” ma pur sempre migranti, si rischia la galera per simpatie extraitaliane.
p.s.2: non si sconvolga, la parola “linguacultura” non l’ho scritta male. é solamente un concetto glottodidattico che si sta sviluppando tra coloro che nell’insegnare la propria lingua agli stranieri, han capito che la lingua non si separa dalla cultura – come invece accade alcune volte a coloro che usano la lingua senza tenere cultura alcuna.
Gentile dott. Chiaberge,
contrariamente a quanto da lei ipotizzato, la squadra azzurra entra nei quarti di finale dei Campionati europei, dopo una bella partita con la Francia. La musa Eupalla, capricciosa e imprevedibile, come avrebbe detto il suo grande collega Gianni Brera, le ha forse voluto mandare un segnale di moderazione. La squadra non è poi così male, ha dato prova di volontà, di cuore e di buone capacità. La squadra degli addetti culturali degli Istituti Italiani di Cultura, che secondo le sue parole è l’equivalente della nazionale di calcio nel campo delle “olimpiadi dell’arte e della creatività”, potrebbe sorprenderla in un modo analogo se solo volesse conoscerla. Siamo una buona squadra, potremmo piazzarci bene nel campionato mondiale degli addetti culturali. Abbiamo perso qualche partita, ma anche giocato molto bene in altre.
Forse sarebbe bene pensare due volte prima di scrivere cose di cui poi ci si potrebbe vergognare. Anche perché io mi ricordo che lei, non più di tre anni fa, moderò con sapienza una tavola rotonda al Ministero degli Affari Esteri sull’identità culturale italiana. In quella occasione nulla disse circa l’inettitudine degli addetti alla promozione culturale, che oggi invece lei vuole far diventare il capro espiatorio della cultura italiana.
Su questo suo blog si legge una bella frase di Norberto Bobbio, secondo cui compito degli intellettuali è seminare dubbi. Molti giornalisti italiani stanno invece oggi seminando la tempesta della stigmatizzazione. Funziona. Individuare un nemico che ci impedisce di essere quello che la nostra vanità ci suggerisce che potremmo diventare, attribuire l’origine della nostra frustrazione a una qualche forza esterna, facilmente isolabile ed etichettabile (non importa chi, ebrei, rom, impiegati pubblici, addetti culturali) ha sempre funzionato per giustificare orribili misfatti.
Sono convinto che molti degli apprendisti stregoni che rimescolano il calderone mediatico facendo ribollire queste forze oscure sono mossi dalla volontà di cambiare l’Italia in senso modernizzatore. Non voglio invece pensare che siano semplicemente i violinisti di una campagna orchestrata che punta all’abolizione della neutralità del settore pubblico per procurare facili sistemazioni ai figlioli della casta.

4 Comments

  1. mi piacerebbe sapere come mai certi italiani quando vanno all’estero non riescono a trattenersi dal tentare la crociata per combattere spasmodicamente il belpaese da fuori … lasciate perdere … lasciateci cortesemente affogare senza dignità nel nostro mare ammalato … voi ormai siete in salvo, non è una vostra questione.

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  2. I motivi sono tanti. Ogni italiano all’estero ha una storia così diversa da costituire di per sé un motivo per volere dire la sua sull’Italia e in Italia.
    Oltre a una serie di legami affettivi e sentimentali che restano per sempre (soprattutto per chi in Italia ci è nato e vi ha passato ran parte della propria vita come il sottoscritto) possiamo guardare anche ai motivi forse più materiali: un italiano che vive fuori può avere interessi, proprietà e attività che sono in Italia ed è per questo che, sulla scorta di un’esperienza comparativa irripetibile, può e deve far sentire la sua voce sulle questioni “italiane” dato che sono sue come per chi deambula fisicamente sul territorio nazionale (cosa che cerco di fare comunque per due mesi all’anno).

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  3. Vorrei solo gentilmente chiedere ai signori, responsabili e non, degli Istituti di Cultura Italiana se hanno l’obbligo di rispondere alle email inviate dai cittadini italiani, oppure se le possono cestinare senza problemi.
    Faccio presente che sul sito web degli istituti c’è sempre un indirizzo email di contatto.
    Se c’è significa che informazioni possono essere chieste e se chieste perchè non c’è nessuno che si degni di rispondere?
    O per avere la risposta è necessario un contributo in moneta (o francobolli, come appurato in giro). A quale titolo questa gabella?
    Grazie.
    Cordiali saluti.

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  4. Caro Roberto,
    qui la questione che poni è più che legittima e non posso risponderti io che non sono nè un responsabile nè un dipendente di un Istituto o del MAE…quindi patisco come te a volte l’inerzia telefonica e i ritardi nelle mail delle ambasciate e gli istituti.
    Ora, ritengo che insistendo un po’ e facendo una chiamata, soprattutto all’Istituto di Citta’ del Messico che è la mia realtaà, si riceve la dovuta attenzione.
    Ciao, grazie…Fabrizio

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