(Testo introduttivo, intervista a Fabrizio Lorusso e aggiornamento su Haiti dopo il passaggio dell’uragano Matthew, di Francesco Giappichini – Blog Americanos43 su Lettera43). Il voto a Haiti, cui facciamo riferimento nel titolo, è stato rinviato a causa del disastroso passaggio dell’uragano Matthew; il cui mortifero transito ha provocato – nella parte occidentale dell’isola di Hispaniola – oltre novecento vittime, e la minaccia dell’aggravarsi dell’epidemia più terribile: il colera. Il Consiglio elettorale provvisorio (Cep) ha disposto che nella giornata di mercoledì prossimo sarà stabilita la nuova data del voto; che dopo innumerevoli rinvii e annullamenti, dovrà designare un nuovo presidente della Repubblica, e rinnovare i due rami del Parlamento nazionale. Molti giudicheranno di cattivo gusto che si affrontino questioni di politica interna, dinanzi a una tragedia con centinaia di morti. (prima parte intervista link)
Siamo tuttavia convinti del contrario. L’occhio del ciclone Matthew – con la sua categoria 4 (ossia “fortissimo”) – a osservare bene le mappe sarebbe invero passato su Cuba: in particolare sulle cittadine guantanamera di Baracoa (nota come la città cubana più antica) e Maisí. Quest’ultimo centro è conosciuto soprattutto per un modo di dire: i cubani – per indicare il Paese nella sua interezza, ed esprimere l’idea di “tutta Cuba da occidente a oriente” – usano appunto l’espressione «da Cabo San Antonio a Punta Maisí». Tuttavia nella Maggiore delle Antille non è morto nessuno: si registrano solo inevitabili danni, ma nelle ore in cui scriviamo – solo per fare un esempio – la linea telefonica di Baracoa è già stata riattivata.
Insomma i morti a Haiti sono forse da mettere in conto – più che a un evento naturale – al cronico sottosviluppo – economico e organizzativo – in cui affonda la Nazione francofona. E per questo è doveroso seguirne le vicende sociali, politiche, ed elettorali. E’ quanto mai d’obbligo dunque pubblicare la seconda parte dell’intervista al professor Fabrizio Lorusso, che insegna presso l’Universidad Iberoamericana León (Ibero León), in Messico. Autore del libro “La fame di Haiti” (pubblicato da Edizioni non deperibili – End nel 2015, e scritto con la giornalista Romina Vinci), si occupa di geopolitica dell’America latina, invia periodicamente succose corrispondenze dal Messico per l’edizione italiana dell'”Huffington post”, e soprattutto gestisce il blog dal titolo “L’America latina” ( https://lamericalatina.net/ ).
Chi volesse approfondire la sua opera, può acquistare in libreria la sua ultima fatica “Messico invisibile – Voci e pensieri dall’ombelico della luna”, pubblicata dalle edizioni Arcoiris, nella collana L’acuto. Le sue opere più importanti sono tuttavia “Narcoguerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga” – per l’editrice Odoya, con prefazione di Pino Cacucci – e soprattutto “Santa Muerte. Patrona dell’umanità”, pubblicata nel 2013 da Stampa alternativa. Qui, con approccio non solo cronachistico ma sociale e finanche teologico, ci descrive il culto della Madonna Morte.
Lei quindi esprime una condanna netta nei confronti delle innumerevoli entità straniere, che operano nel Paese caribico? Oppure magari salva qualcuna di queste esperienze?
«Non posso escludere – e anzi ne sono convinto – che vi siano realtà virtuose e aiuti, che funzionano e creano coscienza nelle persone: riuscendo a dar loro veramente gli strumenti dell’emancipazione, di là dei paternalismi. L’atteggiamento paternalista, inoltre, proviene tanto dagli occidentali come dagli haitiani stessi; è un discorso culturale – oltre che economico – molto complicato, che rischia sempre di far scadere gli osservatori nello stereotipo o nel pregiudizio. Abbiamo cercato di raccontare una realtà con dei diari e dei reportage, abbiamo mantenuto i contatti per sei anni con gente che lavora a Port-au-Prince, e con altri italiani e stranieri che vi si sono recati. Ciononostante penso che la comprensione profonda di Haiti e delle sue dinamiche – comprese quelle gestite o portate dagli stranieri – abbia bisogno di molto di più, e vada oltre le nostre possibilità attuali. Ad ogni modo il mio interesse per i Caraibi e l’America latina in generale, non è mai declinato; e penso di continuare, dal Messico, la strada della comprensione e della critica, quando possibile».
Tralasciando il paternalismo (e anche il terribile terremoto del 2010, e il conseguente colera): perché Haiti non riesce ad affrancarsi dall’arretratezza? Perché non s’innescano quei progressi di crescita, riusciti in altri Paesi dell’Area?
«Senza una rivoluzione sociale profonda – come quella che nel 1804 condussero gli schiavi haitiani contro la Francia, e che sfociò nella prima Repubblica nera e antischiavista del mondo – non vedo forme possibili di sviluppo autonomo e degno. L’economia si riduce al turismo etero – diretto, alla spoliazione delle poche risorse naturali rimaste da parte di compagnie nordamericane, alla produzione agricola cannibalizzata dalle importazioni straniere sussidiate, e alle industrie del sudore o sweatshop; dove lo sfruttamento del lavoro ci fa ritornare agli standard infimi della Rivoluzione industriale dei secoli XVIII e XIX».
E ci può quindi indicare ciò che funziona – sia a livello interno, sia di cooperazione internazionale – in questo sventurato Paese?
«Certo, esistono esperimenti diversi, penso alle cooperative, al recupero di terre per l’agricoltura, e ad alcune organizzazioni non governative che sì funzionano, e generano capitale sociale e competenze; però sono solo macchie, nella realtà depressa del Paese più povero d’America».
Che cosa resta dell’epopea dell’ex sacerdote Jean – Bertrand Aristide, il presidente (poi esiliato) seguace della Teologia della liberazione, e caduto in disgrazia?
«Resta il suo partito, decimato da anni di repressioni e di abbandoni, ma comunque forte come realtà nazionale; e resta la sua presenza nel Paese come leader morale di alcuni settori della popolazione, che non rinunciano alle sue battaglie del passato. Che poi sono le stesse di oggi, anche se lo stato perenne di emergenza sull’Isola non lascia spazio né a progetti politici alternativi, né a un’emersione solida della società civile. La quale, tra fame, colera, uragani, terremoti, ricostruzioni fittizie e il giogo coloniale internazionale, non ha la possibilità di reagire e organizzarsi adeguatamente».
E soprattutto in molti ricorderanno che si tratta di uno tra i pochi leaderdemocraticamente eletti, a essere stato destituito da addirittura due colpi di stato. Il primo – tipicamente miliare – si scatenò il 30 settembre del 1991, mentre il secondo è più recente – e forse più controverso – e data febbraio 2004.
«Sì, resta la storia di un golpe non soft, di un colpo di stato militare; propiziato e condotto da Central intelligence agency e Stati uniti, ai danni di un leader democraticamente eletto. Aristide stava, infatti, avvicinandosi – in quel 2004 di rivolte fomentate dall’opposizione haitiana e dagli Usa – al defunto presidente venezuelano Hugo Chávez. Costituiva, quindi, un pericolo per una Regione strategica – i Caraibi – che da sempre è considerata il cortile di casa della politica estera americana».