Caracas. Conflitto in un continente senza pace @ytali_

venezuela[Di franco Avicolli, da Ytali] Le grandi manovre sono cominciate fin dal 2015, quando gli antichavisti, dopo aver ottenuto la maggioranza di 112 deputati, contro i 51 di Maduro, non riuscirono a decidere di comune accordo se dovevano liberarsi del successore di  Chávez con un referendum, un emendamento costituzionale o una rinuncia. Nell’indecisione, Maduro vince le elezioni del 2017 conquistando 305 municipi contro i 25 dell’opposizione, un successo che conferma nel 2018 con le elezioni presidenziali, anche se la partecipazione al voto non supera il 46 per cento degli aventi diritto. Poi arriva il 23 gennaio 2019 e l’opposizione, con quattro anni di ritardo, rompe gli indugi – o forse riceve qualche importante spinta – e decide di fare ricorso all’emendamento costituzionale nominando Juan Guaidó presidente ad interim del Venezuela, un atto che trova l’immediato riconoscimento del presidente statunitense Trump che addirittura minaccia un intervento militare. L’OSA segue a ruota il presidente statunitense. Tutto ciò mentre il Venezuela vive una pesante crisi, con le scorte alimentari che scarseggiano, con un’inflazione che galoppa con numeri a sei cifre, segno evidente di una situazione ingovernabile che può degenerare anche se l’esercito, fedele al presidente eletto, mostra una qualche capacità di controllo.

Da un lato il chavista Nicolás Maduro, senza un progetto per il paese, dall’altro il giovane Juan Guaidó che all’evidenza non ha neppure lui un progetto se non quello di cavalcare il malcontento. Nel bel mezzo gli Stati Uniti d’America e il braccio esecutivo del più ristretto Gruppo di Lima, fedele al governo di Trump, che parla per l’Organizzazione degli Stati Americani dove non tutti i membri condividono la posizione degli USA. Vale la pena però ricordare che del Gruppo di Lima fanno parte, oltre all’Argentina di Macri, il Brasile di Bolsonaro, il Cile, la Colombia e il Perù, le cui posizioni politiche conservatrici sono ben note, paesi come l’Honduras, il Costarica, il Guatemala. Terre d’emigrazione da sempre, come tutti i paesi latinoamericani, entrate sulla scena della notorietà internazionale con le grandi colonne di migranti che hanno attraversato il Messico – come fanno da sempre incontrando più o meno gli stessi pericoli dei migranti nel Mediterraneo nostrano – contro i quali gli USA hanno innalzato il “muro” e l’ostracismo che ha colpito anche parte della popolazione infantile già residente nel paese.

Ma perché, c’è da chiedersi, il problema del Venezuela è una questione di politica internazionale? E perché non è stata appoggiata la più ragionevole proposta di mediazione fra le parti avanzata dal Messico e dall’Uruguay che lo stesso Maduro ha accettato, forse desiderando uscire di scena purché venga trovata una qualche soluzione alla grave situazione che attraversa il paese?

In questo incrociarsi di domande che non trovano risposte, si fa prepotentemente strada il progetto irrealizzato dell’America Latina della costruzione delle realtà nazionali, avviato con le lotte per l’indipendenza degli inizi del secolo XIX e mai portato a termine perché fortemente condizionato e interrotto: dapprima dall’espansionismo dell’Inghilterra, che appoggia le guerre di indipendenza con lo scopo di sostituirsi alla Spagna e al Portogallo, poi dall’ingresso sulla scena degli Stati Uniti d’America che, nel 1823, definiscono la loro strategia con la dottrina Monroe, con cui si chiarisce che la questione americana è degli americani. La posizione verrà confermata nel 1846 con l’invasione del Messico e l’annessione di più della metà del suo territorio; con l’intervento a Cuba nel 1898, la creazione dello stato di Panama nel 1903 e i vari piani in difesa dei cosiddetti “interessi nazionali” che autorizzano i nordamericani a intervenire o favorire colpi di stato in Guatemala, a Cuba, in Brasile, Uruguay, Cile e Argentina, e poi Grenada, Perù e America Centrale.

L’interventismo inglese prima e quello più deciso degli USA poi, a partire dalla dottrina Monroe confermata nella Conferenza panamericana che si sviluppa a Washington dal 1889 al 1993, non solo condizionano con una visione positivista – il “desarrollismo” – i molto problematici processi di formazione delle identità nazionali, ma decidono il destino dei vari paesi latinoamericani che vengono portati progressivamente a un sistema produttivo interno integrato all’economia più avanzata degli USA. Una cosa che in modo molto esemplificato significa esportare petrolio e importare benzina, esportare carne e importare scatolette, o concedere ampi territori per la produzione agricola, per l’estrazione di materie prime o per progetti cui si dedicano grandi società come la Cerro de Pasco corporation in Perù, la United Fruit Company – nota anche come el Pulpo, autrice del “Massacro delle banane” del 1928 in Colombia o del colpo di stato in Guatemala nel 1954 – e altre compagnie del rame, dell’oro e di altre materie prime. Con la collaborazione di banche che potrebbero disegnare una mappa dell’America Latina con i nomi dei paesi indicati con la materia e il prodotto di riferimento, che nel caso del Venezuela si chiama petrolio e che evoca Libia, Siria, Afghanistan e tutta quella regione che non trova pace da molti decenni. È il mondo del neocolonialismo, una dimensione che rivela con chiarezza che il problema del Venezuela è la miseria. O, se si preferisce, la costruzione di un sistema di distribuzione della ricchezza che sappia dare un presente e un futuro alle popolazioni da sempre escluse, cioè istruzione e formazione, un tetto, cure mediche; un sistema che dia avvio a un percorso perché quelli che Franz Fanon chiamava i “dannati della terra” possano pensare che anche per loro c’è speranza. È quanto Hugo Chávez aveva cercato di fare senza purtroppo avere un progetto chiaro, né tutte le forze necessarie per costruirlo. Si tratta di un percorso che a suo tempo creò entusiasmi e aprì speranze, prospettive che Maduro non è stato capace di alimentare e rinnovare, ma che sicuramente non è tra i programmi di Juan Guaidó.

In tale contesto è auspicabile che l’appello del Messico e dell’Uruguay per un tavolo di conciliazione si affermi sulla posizione di Trump e del Gruppo di Lima, che suona invece come un’istigazione alla guerra civile, e che non accada, come sosteneva Edoardo Galeano, che “tutte le volte che gli Stati Uniti salvano un paese o lasciano un manicomio o un cimitero”.

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