Sesso, droga e…salsa. Notizie di frontiera tra Cali, Città del Messico e Tijuana

Juanchito non chiude mai. Questo mitico sobborgo di Cali, la terza metropoli più popolosa della Colombia dopo Bogotà e Medellin, è famoso in tutto il mondo per le notti eterne a suon di salsa, cumbia e merengue che diventano mattina in un batter d’occhio e, all’occorrenza, in un aspirare di polvere bianca incessante e frenetico. Cali è la capitale della salsa, la musica e il ballo latini per eccellenza, e Juanchito (pronuncia italiana “huancito”) è la sua filiale sempre aperta come uno sportello ATM. Qui il divertimento e la rumba varcano il labile confine dell’eccesso e l’illegalità, si concentrano in un chilometro di strada oltre il celebre ponte, immortalato dalle canzoni del Grupo Niche e dell’Orchestra Guayacan, che costituisce una frontiera ideale tra due mondi paralleli.

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Alle 2am il centro urbano chiude i battenti e i woofer smettono di pulsare. La legge è formale e severa con i locali notturni, mentre tergiversa e chiude un paio d’occhi alla volta sulla circolazione della cocaina, l’eroina, l’ecstasi e la mercificazione del sesso femminile in città. Verso le tre, il popolo della “farra” (o della “fiesta”) converge sui poli discotecari di Juanchito (salsa e latino) e di Menga (techno), appositamente creati poco fuori dal recinto cittadino per evadere le norme sugli orari e continuare indisturbati fino alle 8 del mattino. Per una settimana faccio parte dell’ameno e contraddittorio marasma, di cui posso amare il gusto per il ballo ed anche l’eccesso ma di cui non posso ignorare lo sfruttamento, l’ingiustizia e la devastazione.
Come nel caso delle giovani prostitute, diciottenni o ventenni sfruttate da una sequela di baby gangsters e famigerati protettori poco più grandi di loro. Basta farsi un giro in macchina per le periferie cittadine e fermarsi presso i numerosi agglomerati di auto e taxi, parcheggiate in doppia fila fuori da portoni anonimi ed enormi caseggiati di cemento, per capire le dimensioni del fenomeno. I bordelli e le case d’appuntamento funzionano 24 ore su 24 e le ragazze sono gestite da padroni intransigenti che definiscono i loro turni come in una tragica catena di montaggio just in time. Clienti ubriachi, giovani avventurieri, cocainomani in giacca e cravatta e “rispettabili” anziani malati d’insonnia si siedono su divani in pelle e scelgono la merce. Sono disposti a pagare anche “multe” di 70 dollari per liberare la “favorita” e portarla fuori dalla casa (“liberarla”) per una o più ore, ad una media di 30 dollari all’ora. Denaro che poco conta per il cliente medio, spesso in cerca di compagnia ma anche di consolazione per le sue erotiche insufficienze. Questi “pochi dollari” fanno invece la differenza per Maria Dora Paola Vanessa, una giovane colombiana che ha quattro nomi da utilizzare a seconda del caso: uno con la famiglia, uno coi clienti e un paio con i magnacci che nemmeno sanno ricordare qual è quello vero. Da quando, all’età di 17 anni, è stata abbandonata dal fidanzato e ha deciso di allevare suo figlio da sola, ha considerato la possibilità di lavorare in proprio, in qualche negozio, ristorante o fabbrica di fiori.

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Sforzi inutili visti i bassissimi salari e la precarietà del lavoro. Le famiglie d’origine delle ragazze, molte delle quali sono già madri, vivono in una precarietà economica assoluta e tendono ad emarginarle per il disonore e per non voler sopportare l’onere di un’altra bocca da sfamare. Forse ci si può permettere di vivere tutti sotto lo stesso tetto, ma, si dice “ormai la ragazza è adulta, ha avuto un bambino ed è l’unica responsabile”. Anche se il marito è morto in una sparatoria. Anche se lui è emigrato negli Stati Uniti e ha fatto perdere le sue tracce. L’opzione più plausibile resta quella della prostituzione, magari solo per un anno o due, mentre si finiscono gli studi frequentando le scuole superiori speciali il sabato mattina. Intanto i rischi di contrarre malattie veneree aumentano spaventosamente, così come la dipendenza dalla cocaina, che viene consumata tutte le sere della settimana e, di solito, gentilmente pagata dai clienti a solamente 3 dollari al grammo. Si perpetua, così, lentamente, la sottomissione ai “protettori”, i veri approfittatori del business che si spartiscono quasi tutti i guadagni.

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Nonostante tutto, a Cali il turismo esiste e prolifera. La città, fondata nel 1536 dal conquistatore spagnolo Sebastian de Belalcazar,  possiede un passato coloniale e una serie di attrazioni di rilievo come alcune colline panoramiche, i conventi e le chiese del centro, le sue piazze coi palazzi neoclassici, i tipici chiostri pullulanti di vita e colori e l’ombra di palme di 20 metri d’altezza. Si dice, a ragione, che le più belle ragazze della Colombia vengano da qui e che il suo Festival, organizzato ogni anno tra Natale e Capodanno, attiri i migliori gruppi e ballerini di salsa e cumbia. Questi si sfidano per le strade e, soprattutto, nelle discoteche della Avenida 5 e Juanchito.
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Lungo la Avenida 5, che per il clima e l’atmosfera generale ricorda un caotico lungomare, ti viene offerto di tutto dagli insistenti procacciatori e pusher che passeggiano su e giù nella zona: sesso, droga, alcolici, dischi piratati, dollari, serate al night, pasticche ma anche cibo, alloggio e “pacchetti turistici” che includono coca, ragazze e motel. Cali è anche la capitale della chirurgia estetica, dove molte ragazze possono scegliere di rifarsi il seno o le labbra come regalo per il loro quindicesimo compleanno, età simbolica e forse più importante dei 18 anni in tutta l’America Latina. In questa terra in cui è sempre estate, si mischiano con disinvoltura gli antipodi della corruzione e del divertimento, della sensualità e dell’innocenza, della droga e dell’ossessione estetica personale.

La metropoli, vanta da circa un decennio il record di circa 2300 omicidi all’anno (quasi 7 al giorno) su poco più di due milioni di abitanti e oltre 15000 delitti totali commessi, la maggior parte dei quali restano impuniti e sono legati alle dispute del “Cartel de las drogas de Cali”. Nel 1993, in seguito alla morte violenta di Pablo Escobar, il più noto narcotrafficante colombiano degli anni ottanta, il cartello dei distributori di Medellin, di cui era a capo, ha subito un processo d’irreversibile declino che ha portato ad alcuni effetti a catena.

Prima di tutto, i distributori messicani, che prima erano solo degli intermediari che favorivano l’accesso al mercato USA, hanno potuto accrescere il loro potere di negoziazione e la loro presenza nei mercati internazionali. In secondo luogo e grazie a questo progressivo cambio della guardia, il costo della cocaina in Messico è diventato accessibile anche alle classi medio – basse generando una domanda nazionale che prima si limitava  soprattutto agli oppiacei e alle droghe leggere in genere, ampiamente coltivati e consumati in terra azteca. Infine, in Colombia, i distributori si sono riuniti intorno al Cartello di Cali, permettendo la rinascita di un potere di vendita e contrattazione dei trafficanti nazionali rispetto ai messicani e agli statunitensi.

Tutto ciò ha provocato l’evoluzione generale dell’economia della Valle del Cauca, la splendida regione colombiana dal clima caldo – umido dove passa il fiume omonimo, verso un modello di narco – dipendenza in cui, in un modo o nell’altro, le attività e i soldi girano intorno e si relazionano tacitamente con il commercio degli stupefacenti. Tutti pagano un tributo, il commercio fiorisce ma è causa di disuguaglianze crescenti e la violenza diventa abitudine, si mastica e si assimila come una pasticca che inebria e lascia un retrogusto di tristi memorie e indifferenza sociale.

Una situazione paradigmatica in America Latina e simile, sotto molti punti di vista, a quella della città messicana di Tijuana, megalopoli di frontiera e gemella della vicina e ordinata San Diego (U.S.A.). E’ il  confine geografico e mitico con il “primo mondo” che è diventato un crocevia di anime, degrado, contrabbandieri, di denaro della droga e della prostituzione riciclato da orde di teenagers statunitensi in cerca di emozioni proibite. Negli ultimi trent’anni, fattori come la disuguaglianza economica e delle opportunità, il massacrante lavoro nelle fabbriche di assemblaggio (le famose “maquiladoras”), la connivenza del potere politico e la dissoluzione del tessuto sociale, uniti alla crescita smisurata del commercio, non sempre lecito, hanno indotto e accentuato fenomeni riprovevoli quali gli oltre 600 omicidi di donne a Ciudad Juarez, il traffico di minori e la persecuzione armata dell’emigrazione lungo gli oltre 3000 km di confine tra il Messico e gli Stati Uniti.

Nel suo “piccolo”, un’altra frontiera molto più a sud che marca il confine tra il Messico e il Guatemala, ci riporta ad una realtà geografica e umana analoga e disperata: ancora un fiume da attraversare, i flussi del narcotraffico, gli assalti e, anche qui, la migrazione illegale. Il Messico tratta i migranti centroamericani anche peggio di quanto non facciano gli Stati Uniti con gli stessi messicani. Non è raro incontrare gruppi di guatemaltechi e salvadoregni stipati in centri di detenzione a Tapachula, nello stato messicano del Chiapas, i quali hanno dovuto patire le vessazioni e spoliazioni da parte delle sanguinarie bande della “Mara Salvatrucha” per poter attraversare la frontiera. A tal proposito rappresenta una fonte impedibile la lettura del romanzo, profondamente calato nella dimensione sociale, scritto dal messicano Ramirez Heredia dal titolo “La Mara”, che ha saputo tradurre in letteratura una verità difficile e ignorata che viene patita da migliaia di migranti in cerca del sogno “messicano”, semplice passaggio intermedio verso il più concreto ma sempre distante “sogno americano”.

Quelli che hanno potuto pagare o che sono riusciti da soli a passare senza essere fermati dai corpi della “MIGRA” (polizia di frontiera) messicana, aspettano un famigerato treno che, in teoria, li dovrebbe condurre più a nord, a Veracruz, nel Golfo del Messico, ma che, invece, li porta spesso nelle mani della stessa polizia appostata in attesa di mordidas, le mazzette pagate in dollari per poter passare, o ansiosa di catturare questi avventurieri disperati della speranza. Come se non bastasse, alcuni di loro cadono sotto il treno nel tentativo di saltar su e soffrono gravi mutilazioni che li costringono alla resa se non alla morte.

In definitiva, le condizioni della vita di frontiera, ai margini, si riproducono spesso, in tutte le sue tragiche modalità, anche nei grandi hub latinoamericani come Cali e la stessa Città del Messico, che costituiscono centri di smistamento e di attesa di ogni tipo di merce, tra le quali si contano drammaticamente anche le persone trasformate in oggetti: uomini e donne, bambini, rifugiati politici, abitanti di villaggi sfollati dalla guerriglia o dalla povertà e migranti in genere (o aspiranti a tale “status”) rappresentano i nuovi senza patria nei territori della frontiera globale del Messico e della Colombia.
Pubblicato sul Numero 101, 4.2007 della rivista “Latinoamerica e tutti i sud del mondo”. QUI  http://www.giannimina-latinoamerica.it/

7 Comments

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