Su @_MicroMega_ Luca Cangianti recensisce il libro #NarcoGuerra #Messico #Cartelli della #Droga

narcoguerra messico(Articolo pubblicato su MicroMega il 15 settebre 2015 col titolo “Messico, il dramma della narcoguerra”) “NarcoGuerra” è frutto del lavoro come blogger e reporter che Fabrizio Lorusso ha svolto coraggiosamente da Città del Messico nell’ultimo decennio. Con grande coinvolgimento emotivo, nel libro si raccontano la guerra dei cartelli della droga, i legami tra narcotraffico e parti dello stato messicano, le storie delle vittime e dei loro carnefici. Sullo sfondo, i nuovi movimenti sociali e la speranza per un futuro migliore. Pubblichiamo la recensione di Luca Cangianti e a seguire il prologo al libro scritto da Pino Cacucci.

di Luca Cangianti

In Messico i turisti possono percorrere chilometri di spiaggia bianchissima costeggiata da palme, o visitare le affascinanti rovine Maya, senza accorgersi dei corpi appesi ai cavalcavia e delle teste umane mozzate lanciate sulle piste da ballo. Nel paese latinoamericano, dal 2006 a oggi, ogni 40 minuti viene assassinata una persona, mentre ogni due ore un’altra scompare nel nulla. I numeri, gli attori e le cause di questo massacro permanente sono contenuti nel libro di Fabrizio Lorusso “NarcoGuerra” (Odoya, 2015, pp. 415, € 20,00).

Il tasso di omicidi ogni 100 mila abitanti detenuto dal Messico è 18. Non è tra i più alti dell’America Latina: troviamo numeri ben più drammatici in Colombia (33), Venezuela (49) e Honduras (82) che distanziano di molto la media mondiale (6,5). Il problema del Messico è la recente e rapida crescita della violenza omicida, associata al progressivofallimento dello stato nello svolgere le proprie funzioni. Il weberiano “monopolio della violenza legittima” è infatti insidiato da una moltitudine di cartelli criminali. Fra di essi gli Zetas sono sicuramente i più famosi per il vasto ventaglio di attività illegali offerto – ben 25, tra cui in primo luogo il narcotraffico, ma anche sfruttamento della prostituzione, racket, sequestri di persona ecc.). Tali organizzazioni – la cui storia è attentamente ricostruita dall’autore a partire dai loro padri fondatori – dominano vasti territori nei quali esercitano autorità fiscale e di polizia creando de facto entità statuali ed economiche. Si stima che il 67% dei comuni sia amministrato da sindaci legati alle mafie, mentre i patrimoni derivanti dal narcotraffico sarebbero pari al 40% del pil messicano.

Il sistema giudiziario è al collasso e l’impunità dei delitti arriva al 97%, ma il governo ancora non ha deciso di rafforzare gli strumenti d’indagine, ad esempio incrociando i database patrimoniali dei vari enti statali. Infine, a fronte dei tagli alla spesa sociale imposti dalle politiche neoliberiste “Lo stato del benessere e la previdenza vengono soppiantati dalle buone azioni di alcuni narcos benefattori… legati al ‘vecchio stile’ e all’idea di ‘onore’. Sono loro che costruiscono strade, finanziano opere d’interesse sociale, offrono protezione e lavoro, e lasciano copiose mance… alle parrocchie e ai funzionari pubblici locali. In cambio di qualcosa di concreto, oppure soltanto di compiacenza e rispetto.”

Tale malattia sociale è aggravata paradossalmente da quella che doveva esserne la cura: la politica statunitense della war on drugs ideata per contrastare il commercio degli stupefacenti alla fonte. Per combattere il crimine organizzato “Il Messico compra da imprese statunitensi materiali bellici, mezzi di trasporto e attrezzature varie per la lotta contro i narcos e riceve, altresì, assistenza tecnica per il loro impiego. Il sospetto, non ingiustificato, di una parte della società messicana – scrive Lorusso – è che l’intervento, seppur indiretto, di un Paese straniero… possa costituire un attentato alla sovranità nazionale. Infatti, gli aiuti finanziari e tecnici sono subordinati all’adozione di politiche interne ‘compiacenti'”.

Il volume di ricchezza creato dal prezzo monopolista frutto delle politiche proibizioniste in materia di droghe è tale che le strutture istituzionali difficilmente sfuggono alla corruzione: “Capita che nella stessa regione i federali stiano con un cartello, – continua l’autore – la polizia statale con un altro, mentre quella municipale ne protegge un terzo o finga un’improbabile neutralità. Uomini in divisa rappresentano la legge la mattina, la sera si trasformano in sicari, spie… per poi passare disinvoltamente tra le fila dei narcosquando i tempi sono maturi e le mazzette non bastano più.”

Se lo stato non garantisce un tasso minimo di sicurezza è comprensibile che alcuni settori della popolazione decidano di fare da sé. È così che dal 2013 sono nati gruppi armati di autodifesa tra i quali si contano sia varie organizzazioni popolari di polizia comunitaria (per altro prevista dalla Costituzione messicana) che gruppi più simili al paramilitarismo colombiano, finanziati da imprenditori locali e accusati essi stessi di contiguità con il narcotraffico.

Il racconto di Lorusso sembrerebbe a questo punto lasciare poco spazio all’ottimismo. E tuttavia ogni pagina del libro trasuda di amore per il Messico, empatia per i suoi abitanti e speranza per un futuro migliore. Per l’autore quest’ultima è incarnata dai movimenti sociali che hanno attraversato il paese negli ultimi anni: i sempre presenti zapatisti del Chiapas, il Movimiento por la paz con justicia y dignidad di Javier Sicilia, gli studenti contro l’autoritarismo mediatico di #Yo-Soy132, i difensori delle terre indigene Wirikuta e, per ultimo in ordine temporale, il movimento nato dopo la sparizione degli studenti del villaggio di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero.

Nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2014, durante una manifestazione studentesca, l’intervento della polizia municipale ha provocato la morte di sette persone, mentre 42 studenti risultano ancora scomparsi. Dalle indagini è emerso che la polizia municipale li avrebbe presi e consegnati a un cartello di narcotrafficanti su indicazione del sindaco della vicina città di Iguala, lo stesso che aveva ordinato la repressione violenta della manifestazione. I genitori dei 42 studenti desaparesidos guidano oggi un vasto movimento che è riuscito a mettere a nudo la compenetrazione tra stato e criminalità. Queste persone stanno viaggiando in tutto il mondo per denunciare la reticenza dello stato messicano che non permette di ispezionare le caserme dove molti sospettano si possano recuperare elementi utili alle indagini.

Vivos los llevaron vivos los queremos (vivi li han portati via, vivi li rivogliamo), gridano davanti alle caserme e alle ambasciate. Cercate in rete un po’ di immagini di questi genitori. Guardate quei volti e capirete perché, pur nel mezzo della più atroce delle ingiustizie, anche per il Messico si deve aver fiducia in un futuro migliore.

Prologo a “NarcoGuerra”

di Pino Cacucci

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere,como México no hay dos. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il Paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte d’informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti.

Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prende su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai narcos quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché… Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

E chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?
Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile.

È per questo che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

(15 settembre 2015)

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